Uno degli aspetti più interessanti della riforma della scuola targata Renzi è stato il tentativo, troppo timido in verità, di introdurre criteri premianti basati sul merito: il famoso “bonus”, in pratica l’incentivo economico per i docenti migliori.
Novità rilevante nel mondo del pubblico impiego, non più solo aumenti a pioggia ma un riconoscimento del lavoro e dell’impegno dei più bravi.
Ma quando si vanno a guardare i risultati del provvedimento, per esempio leggendo ciò che scrive Gianna Fregonara sul Corriere della Sera, il quadro generale lascia interdetti.
“Una scuola su 5 ha scelto di dividere i fondi in parti uguali, le altre hanno dato bonus differenziati. Alcuni comitati li hanno assegnati ad un gruppo di insegnanti e non ai singoli.
Nel Lazio è stato premiato il 47 per cento dei prof, cioè uno su due (uno su tre in Lombardia), a Palermo nella metà delle scuole il premio è stato assegnato sulla base dell’autocertificazione degli insegnanti stessi”. Criteri tutti diversi lungo lo stivale, ogni scuola ha scelto le proprie modalità per premiare.
Molti presidi hanno addirittura deciso di non divulgare i nomi dei premiati per non inasprire le proteste già presenti in tutte le scuole italiane.
Insomma un fallimento!
Ed è verosimile, in questa fase di possibile revisione della riforma della scuola, che il premio di quest’anno sia destinato a restare davvero l’ultimo, considerato che nei colloqui della ministra Valeria Fedeli con i sindacati si è parlato di “come cambiare mettendolo in busta paga o addirittura abolire questo premio, che da subito ha creato più malumori che entusiasmo” scrive il Corriere.
Nessuna sorpresa però, ciò che è avvenuto era largamente prevedibile: in Italia non riesce ad affermarsi nel mondo del lavoro ed in particolar modo nel pubblico impiego, il principio della valorizzazione del merito, soprattutto per la storica resistenza di gran parte del mondo sindacale ad accettare criteri di valutazione basati su impegno e professionalità. Tutti uguali è la parola d’ordine.
Perché si fa fatica, a queste latitudini, a comprendere che se si nega il valore del merito non si afferma l’uguaglianza, bensì si accentuano le differenze: se la scuola pubblica (e l’Università, non dimentichiamolo) non esprime eccellenza, vince la gara chi per censo può frequentare scuole e Università private di qualità; se la Sanità pubblica non è qualificata, viene curato bene solo chi può permettersi di pagare.
E non è esente da responsabilità soprattutto la sinistra italiana, la prima a dover comprendere che il valore del merito dovrebbe essere la chiave della sua azione politica, per evitare che si blocchi l’ascensore sociale, per impedire che chi nasce privilegiato continui ad esserlo a scapito dei meno fortunati.