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il fatto

Palermo, depistaggio via D’Amelio: “Non solo la mafia dietro la strage”

giovedì 6 Aprile 2023

I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni della sentenza, emessa a luglio scorso, sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

Il collegio dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo per l’inquinamento dell’inchiesta, e assolse il terzo imputato, Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante determinò la prescrizione del reato di calunnia. Il provvedimento è lungo oltre 1400 pagine. Secondo la Procura, rappresentata in aula dal pm Stefano Luciani, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm, i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. E per questo ai tre poliziotti la Procura imputò l’aggravante di aver favorito Cosa nostra. Aggravante che non resse al vaglio del tribunale e determinò la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati. Il terzo fu assolto nel merito con la formula ‘perchè il fatto non costituisce reato’.

La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese. La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata“. Lo scrive il tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza con cui a luglio scorso ha dichiarato prescritta l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia contestata a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, e assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. “L’odierno collegio – spiegano – ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, sia la prospettiva individuale, delle vittime e dei loro familiari, che quella collettiva“.

L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’ eliminazione di Paolo Borsellino“.

A dimostrare l’ingerenza di terzi soggetti sarebbero “l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. “Non è aleatorio sostenere – si legge – che la tempistica della strage di Via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni“. “La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra – concludono – si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino“.

A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra“. E’ uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio dedicato alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino.

Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda.- scrive il tribunale – Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre“. “In secondo luogo– concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio“.

L’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi – non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame – a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti“. “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato), – spiegano – e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato“.

Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D’Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà“. Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

I Servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage di via D’Amelio. Lo ritengono i giudici del tribunale di Caltanissetta che hanno depositato le motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sull’attentato. “Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (che pure la sollecitò), ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino“, spiegano. Il collegio sottolinea che Tinebra non sarebbe stato il solo magistrato a sapere del ruolo degli 007 nell’inchiesta. “Sarebbe inspiegabile sul piano della logica – dicono – ritenere che Tinebra abbia avviato solitariamente la collaborazione con il Sisde; se veramente così fosse stato egli avrebbe tenuto il più possibile celati tali contatti mantenendo riservati i colloqui e non certo promuovendo la partecipazione dei magistrati dell’ufficio a riunioni o pranzi con esponenti del Servizio“. “È probabile – concludono – che pur essendo i magistrati dell’ufficio pienamente a conoscenza di tale collaborazione nessuno ritenne, anche in ragione del fatto che si trattava di un’iniziativa promossa dal capo dell’ufficio, di sollevare (e soprattutto registrare, lasciandone traccia scritta) obiezioni rispetto ad una collaborazione con il Sisde che non era consentita“.

“Quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile. Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico scaturito“. E’ un passaggio della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio dedicato alla sparizione dell’agenda rossa del giudice che era conservata nella sua borsa. Il collegio riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni come il carabiniere Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa e sottolineando che “appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Giuseppe Ayala pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato“. Ad avviso del collegio “solo (se e) quando si potrà stabilire al fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia dopo mesi ndr)- soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa – si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino“. “Sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, – concludono – tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto“.

Scarantino è un mentitore di professione: è un soggetto che mente dal 1994 e che ha deliberatamente deciso, a distanza di quasi trent’anni, di continuare ad offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false. Anche nell’odierno procedimento ha certamente prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia – certamente ampi – che, per scelta o più probabilmente per necessità, gli vennero lasciati“. Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nella sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. Scarantino è uno dei falsi pentiti che, secondo l’accusa, sarebbero stati imbeccati dalla polizia guidata allora da Arnaldo La Barbera. “Più che rappresentare una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore“, spiegano. “Proprio alla luce della sua costante ambiguità dichiarativa, risulta praticamente impossibile discernere – concludono – quali siano le singole circostanze effettivamente suggerite e quali siano frutto della personale iniziativa, con la conseguenza che non è possibile attribuire con sicurezza una condotta ad un soggetto piuttosto che ad un altro“.

Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta“. Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sula strage di via D’Amelio in riferimento all’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera ritrenuto dall’accusa il “motore” dell’inquinamento dell’inchiesta. “Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e – dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta rientrato nel circuito abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo“, spiegano. Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti “non può ritenersi – aggiungono – che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera (ex capo della Mobile ndr) o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio ndr)“. “Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera”, proseguono. “Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza” concludono i giudici che parlano di una “disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione.”

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