Cari lettori e lettrici, Liberi Nobili, ringraziandovi sempre per la vostra attenzione alla mia rubrica, oggi proverò a concentrare in poche battute la mia risposta a D. che mi scrive: “Sono coinvolta in una relazione tossica con un narcisista patologico. Sono diventata il suo zerbino. Soffro di dipendenza sessuale e affettiva nei suoi confronti a tal punto da passare sopra a tutta la violenza psicologica che mi fa. Sono distrutta e disperata. Cosa posso fare?”.
Mi sembra di stare sfogliando qualche pagina del mio romanzo Ziza (ed. in proprio nel 2008) dove ho cercato di riprodurre una delle tante versioni e dei copioni comportamentali tipici di una coppia sadomasochista, in cui due personalità disturbate si intrecciano creando un vortice di violenza, specialmente nella dimensione in cui la sofferenza di uno è la linfa per l’autostima e il piacere dell’altro: il sesso.
Nel caso di D., non è detto che si tratti di una donna masochista, date le poche informazioni che posso ricavare dal messaggio di aiuto che mi è stato inviato. Si tratta comunque di disturbi psicosessuali e relazionali importanti. Il sadico, spesso, cerca una vittima che non sia masochista perché è proprio la sua riluttanza e la sua sofferenza psicologica (non necessariamente fisica) che provoca in lui eccitazione sessuale e soddisfazione psicologica, in generale. La tendenza a trarre piacere dall’umiliazione e dominazione degli altri è tipica della struttura paranoide di personalità ovvero della organizzazione tendenzialmente paranoidea, laddove vi sia ovviamente la presenza di distorsioni cognitive che impediscono al soggetto di vivere le relazioni in maniera sana. Il quadro clinico più grave associato a questi copioni di violenza è quello del disturbo antisociale di personalità. Dietro alle tendenze sadiche ci può addirittura essere una identificazione con la vittima: riconosce una parte di se nell’altro e gode, quindi, nel far soffrire se stesso. I dati epidemiologici mostrano come siano gli uomini in prevalenza a essere soggetti a questo disturbo di personalità. Il sadismo non è altro che un prodotto culturale, la degenerazione di una dannosa forma di oppressione sociale che ha caratterizzato le radici culturali di tutti noi, anche transgenerazionalmente e inconsapevolmente. Si tratta, cioè, di gravi riflessi etnici che ancora ci trasciniamo geneticamente (e non) e che condizionano la forma mentis e l’atteggiamento della maggioranza degli uomini e delle donne.
Perché un individuo è attratto da soggetti sbagliati, tossici, disturbati fino a esserne dipendente e a farsi maltrattare seriamente? La risposta a questo quesito è da rintracciare nel retroterra infantile. Noi tutti memorizziamo dei particolari Modelli Operativi Interni (MOI) sin dal concepimento che non sono altro se non il risultato delle esperienze che si fanno con le figure di accudimento principali. Siamo programmati all’attaccamento e affinché questa attitudine naturale sia ben regolata e gestita è molto importante che siano abbastanza buone tali relazioni. Il modello che si introietta di esse segna per sempre la vita relazionale dei soggetti e l’attrazione verso persone sane o tossiche. Occorre, quindi, che la qualità delle relazioni vissute nell’infanzia sia tale da creare quelle sicurezze interne necessarie per scegliere partner che confermino uno script fatto di coesione, coerenza, stabilità. Scegliere partner che disconfermano costantemente il valore dell’Io, destabilizzando la personalità, non è altro che la manifestazione di un programma educativo errato e inadeguato ma non solo. Non dimentichiamoci che siamo progettati anche per attraversare specifici percorsi di sofferenza in modo da raggiungere più alti livelli evolutivi. Non è un caso che si è avuto un determinato modello genitoriale e non lo è neanche essere portati a farsi trattare male. Tutto questo può finire grazie a un lavoro su di sé che porti a svelare quali sono le distorsioni percettive relative a se stessi, le modalità tipiche e disfunzionali di rapportarsi con gli altri, rivalutando e riscoprendo la propria persona.
Chi soffre di una dipendenza affettiva ha un vuoto interiore da colmare. In questa affermazione c’è la chiave per capire come divincolarsi da una stretta mortale: occorre fare, impegnarsi in attività che diano un senso alla propria vita, che riempiano gli spazi e impediscano alla mente di pensare ossessivamente alla stessa cosa o persona. Il cervello può mantenere l’attenzione su di uno stimolo per volta e, quindi, a poco a poco, quel pensiero perde potere e, col tempo, sembra solo un brutto ricordo. Sono energie quelle che si impiegano e sono proprio queste forze che devono essere sublimate, trasformate in qualcos’altro, sfruttate per occuparsi di altro. Invece di piangere, dipingete o create opere che possano appagare il bisogno di sentirsi preziosi, abili, padroni, artefici o autori di qualcosa. E se non siete creativi, seguite dei corsi. Circondatevi di persone che non solo vi fanno stare bene ma che siano felici di trascorrere il loro tempo con voi e, quindi, fate di voi dei dispensatori di benessere perché tutto questo accresce l’autostima e migliora le relazioni tutte.