Anche se ci sono voluti 10 anni per tornare al voto nelle ex province, il “patatrac” è dietro l’angolo. Si svolgeranno, infatti, il 19 aprile le elezioni per le ex Province siciliane. Lo ha deciso il governo Musumeci, in attuazione della legge regionale 8/2019, che aveva individuato il periodo utile tra il primo e il trenta aprile del 2020. Qualche settimana fa la prima commissione, non riuscendo a trovare una quadra per spostare la data a settembre oppure ottobre, ha deciso insieme all’opposizione come data utile il 19 di aprile.
Ma numerosi sono i fili che possono aggrovigliarsi attorno a questa data e alle elezioni di secondo livello in Sicilia, con la procedura che prevede siano chiamati alle urne tutti i sindaci e i consiglieri dei 390 Comuni dell’Isola. Nei cosiddetti “enti di aria vasta”, la gestione commissariale durava da oltre dieci anni ovvero da quando, con un colpo di mano, Crocetta d’accordo con i 5 Stelle decise di abrogare le Province. Un provvedimento preso senza però pensare alle conseguenze né organizzare la gestione delle materie ad esse demandate. Una prima elezione era già stata fissata lo scorso anno ma poi venne rinviata.
Nelle tre Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina verranno eletti solo i Consigli, in quanto il sindaco coincide, di diritto, con il primo cittadino del Comune capoluogo. Nei sei Liberi consorzi (che coincidono con le restanti ex province) le elezioni riguarderanno presidenti e Consigli. E se qualcuno pensa che tutto fili liscio come l’olio, purtroppo non è così. Il primo nodo da sciogliere è quello di Agrigento ed Enna. I sindaci sono in via d’uscita, infatti si terranno le amministrative il 24 maggio. Quindi il primo cittadino della città dei Templi Lillo Firetto e il suo collega di “Castruggiuvanni” Maurizio Dipietro non possono candidarsi come presidenti di provincia, visti i vincoli imposti dalla legge Delrio dell’aprile 2014. Città che vedrebbero ben due tornate elettorali in brevissimo tempo seppur con prassi differenti.
Ma la situazione di Catania è ancora più delicata. A primavera entra nel vivo il processo sulle cosiddette “spese pazze” all’Assemblea regionale siciliana. Tra le pene invocate dal pubblico ministero Laura Siani, c’è anche la richiesta di 4 anni e 3 mesi all’attuale sindaco di Catania, Salvo Pogliese. Tutti devono rispondere di peculato. Pogliese, in caso di condanna, rischierebbe la decadenza da sindaco ai sensi della Legge Severino.
A questo proposito, il sindaco di Catania qualche tempo fa ha inviato una nota nella quale ha spiegato il perchè di quelle spese: “Non stupisce più di tanto che la pubblica accusa abbia confermato un orientamento che peraltro persegue da quasi dieci anni – ha detto Pogliese – Sono fiducioso che si affermerà la mia correttezza rispetto ai fatti, che sono ben diversi da quelli teorizzati dalla Procura. Spiace, semmai, constatare che nonostante le evidenze dibattimentali lo abbiano dimostrato con chiarezza, si sia deciso di non tenere conto che i rimborsi sono stati da me anticipati, per pagare contributi previdenziali e stipendi ai dipendenti del gruppo parlamentare dell’Ars, e quelli spesi per fatti personali, in realtà, ne sono solo un parziale recupero dell’onerosa anticipazione effettuata”.
Ed in questo groviglio politico se qualcuno volesse pigiare il tasto reset e posticipare per davvero le elezioni provinciali il prossimo autunno, si troverebbe davanti a una strada impervia e paludosa. Il tempo è troppo stretto per creare un emendamento ad hoc che sia discusso e approvato a Palazzo dei Normanni da tutti i gruppi parlamentari. I quali non sono né preparati né così preoccupati del problema che si va ad aggiungere alle altre beghe politiche ed amministrative.