Con l’arrivo dell’autunno la Festa di Ognisanti e il giorno dei Morti, l’1 e il 2 novembre, sono il primo traino che, tra ritualità e tradizione, aprono il ciclo delle festività invernali.
Poco importa se in rosso sul calendario sia segnato solo il primo giorno del mese: per i palermitani sono quasi un tutt’uno, l’occasione per fare doni ai piccoli e ricordare i cari che non ci sono più.
Perché, come scrisse uno degli autori più acuti nel leggere l’anima di quest’Isola, in una terra “dove c’è più luce, dove c’è più sole, il sentimento della morte deve essere necessariamente più intenso, più sentito… sotto la forza del sole, la morte rappresenta uno scandalo, una trasgressione alla legge della vita”.
E forse la Festa dei Morti, quasi un ossimoro, nel modo in cui è vissuta vuole essere una risposta esorcizzante a questo affronto della natura. Ecco perché, già dal X secolo, la ricorrenza presenta una serie di preparativi che, tradizionalmente, si ripetono ogni anno in città.
Si comincia la sera prima: quando i bambini sono andati a letto si impacchettano i regali, portati come si fa creder loro, dalle anime dei defunti e si imbandisce un tavolo con una serie di leccornie tipiche della festività.
Immancabile nel “tavolo dei morti” è “u cannistru”, un cesto copioso di frutti di stagione, tra cui troneggia la melagrana, simbolo di fertilità e di buon auspicio.
A questi si aggiunge la più ampia varietà di frutta secca: noci, noccioline, arachidi, mandorle, semi di zucca e ceci secchi, meglio conosciuti come càlia e simenza, e poi ancora castagne secche, ovvero i cruzziteddi, caramelle e cioccolatini di ogni genere.
I dolci della tradizione sono un capitolo a parte: ossa ri mortu, pupatelli ripieni di mandorle, nucatuli e tetù, bianchi e marroni, fino ad arrivare ai veri protagonisti del banchetto ovvero la “frutta di martorana” e la “pupaccena” o “pupo ri zuccharu”.
Secondo la tradizione la frutta martorana risale al periodo medievale quando, all’interno della Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio poi detta della Martorana, eretta nel 1143, le suore, in occasione della visita del Papa dell’epoca, poiché non era stagione di frutti golosi da poter offrire all’ospite d’eccezione, pensarono bene di preparali loro con pasta di mandorle e zucchero.
Il risultato fu un trionfo di colori, forme e dolcezza che, fino ad oggi, viene riproposto con grande entusiamo .
Nel tempo la lavorazione di questo impasto dolce e duttile è diventata una vera e propria arte in Sicilia: non solo frutti i soggetti realizzati ma anche pesci, simpatici animali o piatti tipici della tradizione locale (dal pane con la milza al polpo bollito).
Mentre le forme vengono garantite dagli stampi è nell’uso del colore, dalle sfumature all’accuratezza dei dettagli, che viene richiesto tutto l’estro dei pasticceri.
La “pupaccena”, invece, si dice che sia stata l’offerta, in assenza di cibo, ai suoi ospiti da parte di un nobile arabo caduto in miseria.
Un angolo del tavolo, infine, è riservato alle bevande: di solito liquori preparati in casa come il tradizionale rosolio.
Il giorno di Ognissanti, invece, non può mancare sulle tavole siciliane la muffoletta, una pagnottella calda che viene “cunzata” con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga e una spolverata di formaggio grattugiato.
Buona festa a tutti.
* Si ringrazia per le riprese il Bar RosaNero (piazzetta Porta Reale,6) e il maestro pasticcere Raffaele Viviano.