Cari Lettori,
il breve articolo di questa settimana mi è stato sollecitato da uno dei docenti più preparati e simpatici che ricordo nel mio cursus studiorum e che si fa ricordare sempre con grande affetto dai suoi ex studenti, il prof. Giuseppe Diana, chirurgo che – ritiratosi anticipatamente dal ruolo accademico – ha deciso di consacrare la sua vita e la sua professione alla solidarietà attraverso missioni in terre lontane e bisognose di medici esperti, sia per curare che per formare in loco future generazioni di sanitari.
Già dal titolo alcuni di voi avranno identificato uno spirito un po’ provocatorio da parte mia nei riguardi di coloro i quali usano una terminologia anatomicamente non corretta quando parlano di “sesto senso”. E già in un’altra puntata di questa rubrica (QUI) abbiamo accennato alla classificazione dei “sensi” del nostro corpo, che non sono soltanto cinque come la tradizione popolare vorrebbe.
Ricapitolando brevemente, la sensibilità è quella divisione del nostro sistema nervoso che raggruppa tutte le strutture anatomiche deputate a ricevere, trasportare e interpretare tutti gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno e interno del nostro corpo, dando loro un significato funzionale a far innescare delle risposte motorie, con lo scopo di mantenere il nostro organismo nel miglior stato omeostatico possibile.
In termini molto semplici, le componenti anatomiche preposte alla sensibilità sono i recettori, le fibre nervose e quelle reti neurali che costantemente operano un confronto tra stimoli di sensi diversi ricevuti nello stesso istante e stimoli dello stesso senso ricevuti in tempi differenti.
Ciò detto, i sensi si classificano in “generali” e “specifici” sulla scorta della tipologia di recettori preposti a trasdurre uno stimolo di varia natura fisica o chimica (sia esso una molecola gustativa o un pizzicotto) in un impulso di tipo elettrico che viaggerà in lungo e largo per il nostro sistema nervoso: i sensi generali, quindi, adoperano recettori con caratteristiche morfologiche analoghe, mentre i sensi speciali utilizzano recettori con caratteristiche morfologiche differenti e uniche.
La sensibilità generale si divide in somatica e viscerale: se volessimo paragonare il nostro corpo a un’arancia, la parte somatica sarebbe la buccia e quella viscerale la polpa. Tipi di sensi somatici sono il tatto o esterocezione (ossia la sensibilità cutanea) e la propriocezione (ossia il senso della posizione del nostro corpo nello spazio). All’opposto, per sensibilità viscerale (o interocezione) si intende quella proveniente da organi quali, a mero titolo esemplificativo, lo stomaco, la vescica e il cuore. La sensibilità specifica è invece formata da quei sensi il cui acronimo potrebbe essere quello del titolo di una nota rivista di moda: vista, olfatto, gusto, udito ed equilibrio.
Adesso viene il difficile. Alcuni sensi sono definiti “coscienti”, altri invece “incoscienti”, e questi due termini, in neuroanatomia, non hanno il significato attribuitogli dall’accezione comune, bensì rappresentano un concetto morfologico ben preciso: coscienti sono le informazioni che raggiungono la corteccia cerebrale (quella struttura iconica del cervello in quanto, coi suoi giri e i suoi solchi, assomiglia al gheriglio di una noce), incoscienti invece sono quelle che non la raggiungono.
Sensi coscienti sono il tatto, la vista l’olfatto, il gusto e l’udito. Sensi incoscienti sono invece l’interocettività e l’equilibrio. La propriocettività è l’unico senso ad essere trasportato con due percorsi di fibre nervose, uno che termina nella corteccia (e pertanto è cosciente) e l’altro che finisce al cervelletto (e pertanto è incosciente).
Questa dicotomia ha indotto generazioni di studenti e di medici a considerare la sfera della “coscienza” come qualcosa di separato, a sé stante, rispetto a quella della “incoscienza” e, di conseguenza, a immaginare che “tutto ciò di cui noi ci rendiamo conto” (la coscienza) non possa interferire con “quello di cui noi non ci accorgiamo” (l’incoscienza) e viceversa.
E, invece, non è così. E, a questo punto, entra in gioco la struttura indicata nella seconda parte del titolo di questo articolo: il sistema limbico.
Definire e descrivere il sistema limbico correttamente in poche righe è un’impresa titanica. Io mi limiterò a dire che per sistema limbico possiamo intendere l’insieme di strutture del nostro sistema nervoso preposte ad attribuire un significato emozionale alle esperienze sensoriali.
Per spiegarlo in termini più comprensibili, ai miei studenti faccio generalmente un esempio: sia durante le lezioni che durante gli esami loro si trovano seduti di fronte a me. Ma mentre durante le lezioni possono concedersi il lusso di essere svagati e distratti da altri pensieri, se non addirittura annoiati, durante gli esami il loro stato d’animo è ben differente. L’esperienza sensoriale è analoga (docente versus studente), il contenuto emozionale è diverso. Ciò che modifica lo stato emotivo è la situazione di “potenziale pericolo” (neanche fossi una tigre pronta a sbranarli, sic!) che lo studente avverte e l’attivazione di tutti i “meccanismi di difesa” viscerali che devono condurlo a superare la prova. Insomma, avrete compreso che il sistema limbico è una struttura filogeneticamente antica e molto efficiente, funzionale alla sopravvivenza (e quindi anche alla riproduzione) della specie.
Il sistema limbico rappresenta il ponte tra coscienza e incoscienza, ma anche tra volontarietà e involontarietà. E andiamo a spiegare brevemente, e sempre da un punto di vista neuroanatomico, anche questi due termini: manco a dirlo, “volontario” è un input motorio (e diretto ai muscoli scheletrici) che parte dalla nostra corteccia cerebrale, mentre “involontario” è un input motorio (diretto, potenzialmente, non solo ai muscoli dello scheletro ma anche al cuore e agli altri visceri del nostro corpo) che parte da aree nervose sottocorticali (non importa in questa sede definire quali).
Noi non possiamo “volontariamente” accelerare la frequenza del nostro cuore, ma lo studente all’esame – soprattutto se la domanda che gli è stata posta riguarda un argomento non ben studiato o compreso – può manifestare tachicardia, così un’alterazione della sudorazione o una dilatazione delle pupille. Tutto ciò (e anche molto di più) è determinato dall’attività delle strutture del nostro sistema limbico, che “idealmente” (qualora i sensi fossero stati cinque, ma così non è…) rappresenterebbe il nostro “sesto senso”, ossia quel “senso” in più che ci aiuta a riconoscere (coscientemente) le situazioni di pericolo e di attivare (involontariamente) tutte quelle strutture anatomiche che – ancestralmente – hanno lo scopo di renderci più “performanti” davanti a una situazione di stress.
So bene che quanto detto finora può avere generato in Voi più domande che risposte, ma attendo proprio le prime per produrre, a seguito dei vostri stimoli, le future puntante di questa rubrica.
Termino completando la spiegazione del titolo dato all’articolo odierno, quel “probabilmente” (messo tra parentesi) ispiratomi dalla mia visione falsificazionistica e popperiana della scienza: ogni teoria è scientificamente valida se può essere contraddetta attraverso esperimenti adeguati, e il progresso scientifico avviene per confutazione delle teorie esistenti e ideazione di nuove teorie (a loro volta falsificabili) che ne prendono il posto. E quindi, anche quello che ho provato a spiegarVi oggi è valido, ma solo fino a prova contraria.
Francesco Cappello