Il flash dell’Ansa viene battuto alle 9.15. “Arrestato Matteo Messina Denaro”. Dalla cattura dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra sono passati appena tre minuti.
“Si dà atto che l’immobilizzazione e la dichiarazione di arresto sono avvenute alle 9.12″, si leggerà nel verbale dei carabinieri del Ros che, il 16 gennaio di un anno fa, hanno catturato l’ultimo boss stragista latitante da 30 anni. Le prime notizie lasciano basiti: l’uomo più ricercato d’Italia è stato preso in una delle cliniche private più note di Palermo, La Maddalena, poco prima di sottoporsi all’ennesima seduta di chemioterapia.
La Primula Rossa di Cosa nostra dunque era in cura a pochi chilometri dal suo paese, Castelvetrano. Solo una delle incredibili scoperte che la Procura guidata da Maurizio de Lucia e i carabinieri faranno. Montone griffato, cappellino di lana in testa e al polso un Franck Muller da 35mila euro. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro”, risponde al militare del Ros che l’ha bloccato. Fuori dalla clinica, “cinturata” dagli investigatori per evitare la beffa della fuga, decine di palermitani, saputa la notizia, applaudono i carabinieri. Con l’ex latitante finisce in carcere un imprenditore di Campobello di Mazara, Giovanni Luppino: è l’autista che ha accompagnato il padrino nella struttura sanitaria. “Me l’avevano presentato con un altro nome, mi ha chiesto un passaggio”, dirà ai militari che scopriranno dopo che quello del 16 gennaio era solo uno dei 50 viaggi a Palermo fatti da Luppino e dal suo passeggero. Mentre nelle redazioni arrivano decine di note di politici ed esponenti delle istituzioni che si congratulano con i pm di Palermo, la premier Giorgia Meloni vola nel capoluogo per incontrare il procuratore e l’aggiunto Paolo Guido, i magistrati che hanno coordinato il blitz.
I particolari su una cattura attesa da tre decenni arrivano nel corso della giornata. Non mancano dietrologie e retroscena che raccontano di un capomafia che ha scelto la resa e si è consegnato. Sarà il capo dell’ufficio inquirente, nel corso di una conferenza stampa, a raccontare i particolari del blitz. Ma solo dopo mesi sarà davvero chiaro come i carabinieri siano arrivati a prendere l’ultimo latitante di Cosa nostra. Che a portarli sulle tracce di Messina Denaro sia stata involontariamente la sorella del boss, Rosalia, arrestata due mesi dopo, è infatti ancora riservato. A marzo si saprà tutta la verità e gli inquirenti potranno raccontare di come i militari del Ros, mettendo le microspie in un locale della casa della donna, nella gamba di una sedia abbiano trovato un biglietto in cui la Messina Denaro aveva scritto una sorta di diario clinico del boss, malato da due anni di un gravissimo cancro al colon.
Dalla scoperta del biglietto – era l’8 dicembre – la macchina investigativa si è messa in modo e attraverso uno screening dei malati di tumore di tutta Italia i carabinieri arrivano a un paziente compatibile per età e luogo di residenza al capomafia. Il suo nome è Andrea Bonafede, un geometra di Campobello nipote del capomafia Leonardo. Ma quando il paziente Bonafede risultava in cura alla Maddalenna, il vero Bonafede era da tutt’altra parte. Il sospetto prende corpo: il 14 gennaio i militari scoprono che il malato si sarebbe sottoposto alla chemio il lunedì successivo. E organizzano il blitz. Dall’arresto – Messina Denaro viene portato nel supercarcere de L’Aquila – è un susseguirsi di scoperte: dalla rete dei fiancheggiatori (finora ne sono stati presi 9), ai covi di Campobello pieni di pizzini e appunti, ai soldi sequestrati: circa 800mila euro cash. Inizia una nuova fase delle indagini: ricostruire i 30 anni di latitanza del capomafia. Interrogato più volte, Messina Denaro accetta di rispondere, ma precisa “non mi pento”. Morirà la notte del 24 settembre, nel reparto detenuti dell’ospedale de L’Aquila, dopo aver finalmente riconosciuto la figlia naturale Lorenza