Nel silenzio delle cronache ordinarie, mentre il dibattito pubblico si concentra su criminalità giovanile e micro-violenza urbana, c’è un fenomeno che cambia pelle, muta forma, si adatta ai tempi. È la mafia siciliana, o meglio: le mafie di Sicilia, come le chiama oggi la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) nella sua nuova relazione annuale per il 2024.
La Relazione sull’attività svolta e risultati conseguiti dalla Dia nel 2024 è stata presentata dal Ministro dell’Interno al Parlamento e relativa all’analisi sui fenomeni di criminalità organizzata di stampo mafioso.
L’ultima edizione si connota per la significativa riduzione del gap temporale con il periodo di riferimento – in passato arrivato ad oltre un anno – per poter rendere disponibile un resoconto sull’andamento dell’azione antimafia “ravvicinato”, nonché relativo ad un arco diacronico maggiormente significativo, essendo adesso riferita all’intero 2024.
La struttura del documento, è stata snellita ed impostata sulle matrici mafiose, con l’intento di descriverne l’operatività nel loro complesso, declinandone poi le presenze a livello territoriale, lo specifico modus operandi adottato nei vari contesti d’area e dando risalto alla descrizione delle azioni di contrasto di tutte le componenti del sistema antimafia.
Un’attenzione particolare è stata riservata anche alle risultanze tratte dalle interdittive antimafia emesse dalle Prefetture, unitamente ai più recenti istituti giuridici rivolti al reinserimento delle aziende “contaminate” nel circuito imprenditoriale sano, graduando così l’intervento nell’ottica di un giusto bilanciamento con le regole del libero mercato e dell’occupazione.
Un documento agile nella struttura ma profondo nei contenuti, che delinea un paesaggio criminale in continua trasformazione, segnato da fluidità, ricomposizioni strategiche e imprenditorialità mafiosa.
ilSicilia.it ha analizzato il rapporto per individuare i temi e i fenomeni mafiosi principali e il quadro generale nelle province siciliane.
“Le mafie” in Sicilia: un sistema che resiste, riformula e reinveste
Sull’isola la presenza delle organizzazioni mafiose non si limita a un’unica sigla. Se Cosa nostra continua a rappresentare la colonna vertebrale della criminalità organizzata, l’evoluzione delle dinamiche interne e le interazioni con altre consorterie — come la stidda, i gruppi autonomi etnei, e le alleanze interprovinciali — restituiscono una mappa complessa, dai contorni mobili. Ed è proprio questa plasticità organizzativa il cuore dell’allarme lanciato dalla Dia.
Ma la mafia palermitana non è più la sola. Nella Sicilia meridionale, la stidda, una volta rivale sanguinaria di cosa nostra, ha stretto patti di convenienza, spartendosi territori e affari. Anche ad Agrigento il confine tra le due strutture si è fatto poroso, mentre a Trapani persiste un forte senso di omertà e appartenenza, che rende difficile il lavoro delle forze dell’ordine.
Ancora più eterogeneo è lo scenario della Sicilia orientale. A Catania, le consorterie locali si distinguono per un dinamismo affaristico spinto, dove la criminalità adotta assetti a “geometria variabile”. Si alternano periodi di tregua a scontri tra clan, con ricambi costanti al vertice che non minano, però, l’operatività delle reti mafiose. I gruppi catanesi hanno saputo sviluppare una vocazione imprenditoriale forte, spesso superiore a quella palermitana, sfruttando le pieghe del sistema economico locale.
A Siracusa e Ragusa, il controllo è esercitato soprattutto da cosa nostra catanese e, in misura minore, dalla stidda gelese.
A Messina, la situazione è mista: da un lato persiste il modello “ortodosso” di cosa nostra palermitana, dall’altro agiscono influenze etnee, in un equilibrio instabile ma efficace.
La leva criminale si abbassa: mafie giovani e manovalanza armata
C’è un dato sociale che preoccupa e che al centro della relazione Dia: il reclutamento di giovani, spesso minorenni, per lo spaccio, il trasporto della droga o come “sentinelle”. La criminalità mafiosa esercita un fascino che si mescola al disagio economico e alla povertà educativa. Il tessuto sociale diventa così terreno fertile per nuove leve criminali. Un fenomeno che si estende su tutta l’isola, con tratti comuni ma declinazioni diverse a seconda dei territori.
Se Palermo e Catania continuano a rappresentare i due poli principali delle grandi consorterie mafiose, sono proprio i quartieri più periferici e disagiati — come lo Zen, Ballarò, Librino, San Cristoforo — a fornire il serbatoio umano per le nuove leve criminali. Ragazzi, spesso minorenni, che diventano staffette, vedette, spacciatori o corrieri della droga, reclutati per piccoli compiti ma immersi fin da subito in una logica di appartenenza, sottomissione e riscatto criminale.
Non si tratta più — o non solo — di una mafia che seleziona in base al sangue o alla tradizione familiare. Oggi a pesare sono la rapidità di esecuzione, la fedeltà cieca, la disponibilità al rischio. E, soprattutto, l’assenza di alternative. La povertà educativa, la dispersione scolastica, la mancanza di presidi culturali e sportivi rendono molti contesti urbani terreni fertili per il radicamento mafioso. Così la mafia, più che imporsi con la forza, si sostituisce allo Stato come punto di riferimento per chi cerca status, denaro, riconoscimento.
Secondo la Dia, il ricambio generazionale nella manovalanza avviene ormai con ritmi rapidi e costanti. Alcune inchieste in corso, in particolare tra Palermo e Trapani, hanno documentato gruppi di giovanissimi coinvolti nella gestione delle piazze di spaccio, con ruoli sempre più autonomi rispetto alle famiglie storiche. In molti casi, i legami con i clan sono più commerciali che gerarchici, segno di una progressiva frammentazione del potere e della nascita di sottoculture criminali ibride: meno rituali, più ciniche.
Ma dietro questa apparente autonomia, si cela ancora il controllo strategico delle grandi consorterie, che utilizzano i giovani come scudo umano e operativo, esponendoli al rischio penale in cambio di briciole. I minori sono strumenti usa e getta: arrestabili, sostituibili, facilmente manipolabili. Eppure, spesso scelgono consapevolmente di entrare in quel mondo. È il fascino dell’illegalità, la mitologia della “bella vita”, il miraggio dei soldi facili a rendere attraente la carriera mafiosa — specie quando l’alternativa è il nulla.
La relazione segnala anche una diffusa disponibilità di armi in tutte le province siciliane. Questo arsenale, nascosto ma pronto all’uso, serve a difendere gli interessi in gioco in caso di conflitti tra clan, o contro soggetti “infedeli” al sistema.
In diverse province — da Catania a Gela, da Partinico a Vittoria — le indagini hanno rivelato una capillare disponibilità di pistole, fucili e armi automatiche, spesso nascoste in abitazioni private o in luoghi insospettabili come garage, fondaci e casolari. Le armi non sono solo strumenti di offesa, ma simboli di potere. L’ostentazione del possesso, mostrata anche sui social, è parte integrante della costruzione del “carisma criminale”.
Un’allerta in più arriva dal mondo carcerario: il rientro dei boss in cella, e la conseguente necessità di mantenere il controllo delle piazze, spinge molte famiglie mafiose ad armare giovani affiliati per garantire protezione, punire i traditori o intimidire i concorrenti. Alcuni detenuti riescono ancora a impartire ordini dall’interno, tramite familiari o strumenti illeciti come i telefoni introdotti illegalmente.
Il rischio, avverte la Dia, è quello di un effetto emulativo sempre più diffuso. L’“uomo d’onore” perde il volto del vecchio capomandamento e assume quello di un adolescente con il passamontagna e la pistola in tasca. Un’immagine che dovrebbe far riflettere tutti — scuola, istituzioni, terzo settore — su quanto ancora resta da fare per spezzare il ciclo mafioso alla sua radice: la marginalità.
La “diversificazione del portafoglio criminale” mafioso: non solo droga ed estorsioni
Non sono solo la droga e le estorsioni a sostenere la macchina economica delle mafie siciliane. La relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia aggiornata al 2024 rivela un ventaglio molto più ampio di attività illecite, che spaziano dalla truffa ai fondi europei al gioco legale, fino al controllo sistemico di settori produttivi strategici.
Il traffico di stupefacenti resta la voce dominante. Le mafie siciliane — in particolare le articolazioni di cosa nostra palermitana e catanese — mantengono un ruolo centrale nei traffici internazionali di cocaina e hashish, grazie a consolidati rapporti con cartelli sudamericani e gruppi criminali calabresi e campani.
Ma la novità risiede nella crescente ibridazione operativa: clan diversi collaborano, si scambiano rotte, si dividono piazze. E spesso lo fanno senza che vi sia una guerra per il territorio, ma secondo logiche di cointeressenza logistica e massimizzazione del profitto. In Sicilia si coltiva cannabis in serra, con tecniche sofisticate, mentre la cocaina arriva grazie a canali internazionali.
Le estorsioni, storicamente radicate nel tessuto mafioso, si sono trasformate. Meno bombe e minacce esplicite, più imposizione silenziosa di forniture, personale, servizi professionali a costi maggiorati. È una forma di controllo economico che non lascia cicatrici visibili, ma che indebolisce progressivamente l’autonomia imprenditoriale. Spesso, come evidenziato nel report, i titolari di imprese non denunciano nemmeno, perché le “imposizioni” vengono mascherate da fatture regolari e passano come costi deducibili.
Ma ciò che colpisce di più nella relazione è l’infiltrazione nell’economia legale, attraverso società “pulite” gestite da prestanome. I settori più esposti in Sicilia sono l’edilizia, la ristorazione, il trasporto merci, i rifiuti, i servizi funebri e l’agroalimentare. Qui le mafie intervengono non con la forza, ma con la finanza: acquisizioni, fusioni, intestazioni fittizie. Tutto appare in regola, ma il capitale è di origine criminale.
Il gioco legale e le scommesse online costituiscono un altro asset strategico. Le mafie non si limitano più al “totonero”: sono presenti anche nei circuiti autorizzati, dove riciclano denaro e controllano flussi economici elevati. Alcune sale scommesse, secondo la Dia, finiscono per diventare vere e proprie filiali bancarie dell’economia mafiosa.
Infine, cresce l’interesse per la frode nei contributi pubblici, in particolare quelli europei destinati all’agricoltura. In Sicilia, tra le province più esposte figurano Enna, Caltanissetta e Ragusa. Le consorterie ottengono finanziamenti fingendosi imprese agricole, spesso con la complicità di professionisti e funzionari pubblici.
Il quadro finale che ne emerge è quello di una mafia che diversifica il portafoglio, che cerca “investimenti sicuri” nel cuore dell’economia reale. E che, senza bisogno di sparare, continua a fare affari.
La risposta delle istituzioni: i numeri in Sicilia
La relazione mette in evidenza un altro dato cruciale: nel 2024 sono state emesse 201 interdittive antimafia in Sicilia. Di queste, 123 solo nella parte occidentale dell’isola. Le interdittive colpiscono imprenditori, ditte, società attive in settori strategici come edilizia, ristorazione, trasporti, servizi funebri, sanità e agricoltura, ma anche nei servizi di manutenzione stradale e autostradale.
Un settore chiave è proprio quello agricolo, dove la mafia ha saputo infiltrarsi anche nel circuito dei fondi europei. Truffe, intestazioni fittizie e prestanome sono strumenti ricorrenti per accedere a finanziamenti pubblici, in particolare nei territori dell’entroterra.
Un’emergenza che è emersa anche nell’ultimo Rapporto Agromafie 2025 dell’Osservatorio Eurispes-Coldiretti, dove la Sicilia emerge come uno degli epicentri dell’illegalità agroalimentare.
Agromafie in Sicilia: terra di conquista tra caporalato, filiere opache e clima impazzito
Nel 2024, la Dia ha eseguito in Sicilia confische per oltre 104 milioni di euro, a cui si aggiungono sequestri per circa 6 milioni. Interventi che colpiscono patrimoni riconducibili direttamente ai clan: immobili, aziende, terreni, veicoli, conti bancari.
Esemplari i casi di Palermo e Ragusa: nel primo, è stato colpito un affiliato della famiglia Tommaso Natale attiva nello spaccio allo Zen; nel secondo, sono state sequestrate due aziende di raccolta rifiuti e una società di materie plastiche collegate alla famiglia Dominante-Carbonaro di Vittoria.
Oltre alla repressione giudiziaria, la Dia promuove una strategia che mira a interrompere il flusso economico delle mafie, seguendo il principio del “follow the money”. È su questa tracciabilità finanziaria che si gioca oggi la partita più importante.
Una metamorfosi continua
Il volto delle mafie in Sicilia che emerge dalla relazione Dia non è più quello dei latitanti nelle campagne, né dei pizzini nascosti sotto le pietre. Oggi la criminalità organizzata indossa abiti nuovi, più sobri ma non meno pericolosi. È un sistema che si adatta, si insinua, si reinventa. È in atto una vera e propria metamorfosi — sociale, economica e strategica — che rende le mafie meno riconoscibili, ma più ramificate e influenti.
Le organizzazioni criminali siciliane hanno compreso da tempo che il potere non si esercita più solo con la violenza. Il controllo del territorio passa ora attraverso la gestione dell’economia, la cooptazione sociale, la manipolazione dell’informazione e l’aggiramento delle regole. La mafia non punta più a intimidire apertamente, ma a rendersi necessaria, silenziosamente presente.
Questa trasformazione è anche culturale. Le consorterie si fanno più “imprenditrici”, parlano il linguaggio dei bandi pubblici, dell’agroindustria, del credito. E intanto si rigenerano reclutando nuove leve tra i giovani delle periferie, mentre intrecciano rapporti con reti criminali internazionali per i traffici di droga, armi e capitali.
Il rischio più grande, ammonisce la Dia, è l’assuefazione collettiva. Quando la mafia non spara più, diventa più difficile riconoscerla. Quando si presenta come soggetto economico, rischia persino di essere tollerata. Per questo, la sfida non è solo investigativa o giudiziaria, ma anche civile e culturale.
In questo contesto, il concetto di “metamorfosi” non è solo descrittivo: è un monito. Le mafie cambiano pelle, ma non obiettivi. E proprio per questo vanno studiate, raccontate e contrastate con strumenti nuovi e consapevolezza diffusa.
La Dia lo dice chiaramente: le mafie non cercano solo il potere economico, ma anche quello relazionale, sociale, politico. Sanno stringere accordi con funzionari infedeli, aggirare le regole, costruire reti di influenza.
La questione per la legalità, dunque, non è solo un fatto giudiziario: è un processo culturale e civile, che richiede comunità vigili, stampa libera e istituzioni trasparenti.