Poche cose come il calcio hanno la capacità di racchiudere insieme tradizione, identità, cultura e apparenza. Una catena di valori capaci di forgiare e plasmare intere generazioni, legate tra di loro da quel sottile filo rosso. Passioni, dei veri e propri amori, che si cuciono sulla pelle e restano incisi per tutta la vita, creando ricordi indelebili e spesso nostalgici, gelosamente custoditi. Come qualsiasi altro settore, però, anche il calcio è cambiato, mutando le proprie fisionomie e le proprie peculiarità. Le partite della domenica, i ragazzini che passavano le proprie giornate a giocare in oratorio o le faticose conquiste, forse banali, che riempivano il cuore di orgoglio. Questi sono solo alcuni aspetti di un mondo sbiadito, apparentemente lontano, ma che in realtà esisteva “appena” trenta, quaranta, cinquanta anni fa. Un’evoluzione veloce e inarrestabile che ha messo in atto una vera e propria metamorfosi di uno sport che, oggi, prende sempre di più le sembianze di una grande azienda multinazionale.
Questa trasformazione passerà inosservata alle nuove generazioni, vissute tra le decine di match spalmati in qualsiasi orario nell’arco dell’intera settimana e con i miti di Messi o Cristiano Ronaldo (giusto per tracciare una linea cronologica), ma che certamente non è sfuggita a chi, anche se da dietro le quinte, ha “masticato” per tanti anni i campi da calcio, scalando tutte le categorie, dai settori giovanili alle massime serie.
“Il calcio moderno non ci piace“. E’ secco e preciso il parere del giornalista Andrea Lodato, voce e volto dello sport siciliano.
La storica firma de La Sicilia di Catania, ora a Sestarete Tv e Radio Fantastica, ha sviluppato sull’argomento un’attenta analisi, suggerendo spunti di riflessione interessanti su come il calcio sia cambiato negli anni, tra aspetti negativi e positivi. E dunque, perché “non piace più“? Cosa è successo?
Il primo aspetto è legato alla “la sudditanza del calcio maggiore alle regole dettate dalla televisione. Una volta – sottolinea Lodato – si giocava la domenica, si sapeva l’orario e quali partite ci sarebbero state“. Insomma, si trattava di un “calcio a misura di tifoso“. L’abito oggi ha cambiato misura e non calza più pennello agli instancabili sostenitori. “Il fatto che il calcio sia legato ai soldi delle pay tv – aggiunge – non soltanto crea un dislivello tra le realtà più grandi e quelle più piccole, ma mette anche in crisi chi va allo stadio. Questa dipendenza ha già fatto saltare il quadro. Ci piace poter vedere il calcio, ma ora se ne vede troppo e anche questo sta provocando un po’ di allontanamento e scollamento dalla base. Credo ancora nei valori, ma quando questi diventano ‘bancari’ non sono più valori“.
Questo mutamento, però, è la somma di più elementi. Uno di questi tasselli è l’approccio dei ragazzini al calcio. “Non mi piace molto. La colpa non è loro, perché ognuno di noi segue un sistema. Una volta si partiva dagli oratori, dalla strada e avere un paio di pantaloncini da calcio o la maglia della squadra era un sogno. Ricordo – racconta – che la mia prima maglia della mia squadra del cuore la ottenni con i punti delle figurine Panini e andare a giocare in piazza, indossando quella, maglietta, era il coronamento di sogno. Oggi i ragazzini frequentano le scuole calcio, hanno borsoni, tue, divise: tutto quello che prima uno si guadagnava con il tempo. Questa cosa qui fa perdere fascino al calcio, crea delle situazioni di confusione nel ragazzino, che ormai non si conquista più niente. Anche il borsone prima era una conquista“.
All’occhio meno attento non sarà, invece, sfuggito come anche il “sistema societario di una volta” sia in via di estinzione. “Anche questo ha influito tantissimo. Ora, per esempio, esistono i fondi. Basti vedere il Milan o l’Inter. Le società hanno dovuto cambiare il loro modo di essere e stanno scomparendo. Il sistema vacilla anche per questo, perché non sai chi c’è dietro. Non è importante saperlo, ma fa parte di un gioco. Le società rappresentavano l’identità di un territorio“.
Qualche esempio? Renzo Barbera e Angelo Massimino. “Erano due tipi assolutamente diversi per tanti aspetti, ma due presidenti che facevano vivere il calcio anche senza raggiungere grandi risultati. Rappresentavano l’identità di Palermo e di Catania. Due personaggi a cui, non a caso, hanno intitolato gli stadi“.
Il forte senso di appartenenza, di casa, non è ancora morto e sopravvive nel calcio dilettantistico. Dei mutamenti sono avvenuti, ma il contatto con le proprie radici è ancora ben saldo. “Al di là delle problematiche legate alle questioni economiche, che ci sono sempre state, ora – spiega Lodato – è molto diverso. Soprattutto culturalmente, i ragazzi che giocano in queste categorie sono diversi da quelli che facevano i dilettanti vent’anni fa. E’ un dato positivo. Ci sono molti più ragazzi diplomati che sognano di fare i calciatori, ma se non riusciranno ad andare oltre la serie D potranno contare comunque sul proprio patrimonio. E’ l’unico calcio che ancora sembra vero, autentico. Non giocano un gran calcio, ma giocano a calcio. Mi diverto a guardarli, più di una stucchevole partita di serie A“.
La “fortuna” del calcio dilettantistico resta quella di conservare ancora “il fascino dei piccoli centri, dove il calcio è un collante sociale. La gente ne parla, basti pensare all’Enna che è stato promosso“. Quella dell’Enna, tornato in D dopo 34 anni di assenza, per quanto fantastica, è solo una delle tante storie che accendono l’animo dei tifosi, di qualsiasi colore, maglia o fede. Basti pensare quest’anno al Nissa, autore della medesima impresa, o al Paternò, anch’esso promosso e vincitore la Coppa Italia nazionale di Eccellenza, o all’avvincente duello nel Girone I tra Trapani e Siracusa, concluso con il ritorno dei primi tra i professionisti, giusto per citare alcuni degli esempi più chiacchierati e noti, senza dimenticare i traguardi tagliati dai club di minore blasone o con un numero di riflettori inferiore.
I campi dilettantistici celano un altro fascino: quello dei ricordi. “Quando ho iniziato a scrivere di calcio – racconta Lodato – mi facevano fare tre partite di calcio giovanile la domenica, alle 8:30, alle 10:30 e alle 14:30. Ho aspettato con ansia che mi proponessero le partite di prima categoria. Poi la promozione. Sono cresciuto su quei campi, un po’ come crescevano giocatori e alcuni allenatori. Molti dei miei colleghi più giovani hanno iniziato parlando di serie A, del Palermo di Zamparini o del Catania di Pulvirenti. Hanno però perso un passaggio importante, quello della crescita progressiva. Anche nel nostro mestiere i campi dilettantistici erano una palestra importante di crescita. Raccontare in maniera romantica il calcio nasce anche da questo vissuto. A Catania – conclude – ho lavorato con grandi allenatori come Montella, Simeone, Mihajlovic e giocatori come Maxi Lopes, Vargas, Barrientos, Mascara, ma se dovessi dire chi mi ha raccontato qualcosa mi viene in mente Stefano Musumeci. Non è molto conosciuto, giocava nel Mascalucia, era alto un metro e cinquantacinque ed era un giocatore e un uomo straordinario, che poi da allenatore ha creato e cresciuto tantissimi ragazzini“.