In Sicilia ammalarsi è una condanna geografica. Non per la gravità della patologia, ma per la distanza che spesso separa il bisogno di cura dalla risposta del Sistema sanitario regionale. A ogni costo, anche quello emotivo. Negli ultimi anni il fenomeno della migrazione sanitaria, cioè lo spostamento dei pazienti da una regione all’altra per ricevere prestazioni diagnostiche, chirurgiche o terapeutiche, è diventato uno degli indicatori più eloquenti della frattura strutturale che attraversa la sanità italiana. E la Sicilia ne è uno dei simboli più crudi.
I dati
Nel solo 2023, secondo i dati aggiornati da AGENAS, oltre 32.000 siciliani hanno varcato lo Stretto per curarsi in altre regioni, generando una spesa stimata tra i 242 e i 289 milioni di euro. Il dato non è solo economico: è politico, sociale, sanitario. E, soprattutto, è la conferma di un’esigenza insoddisfatta. Nonostante un lieve calo rispetto ai 40.000 pazienti del 2022, la regione continua a sostenere un saldo passivo che oscilla tra i 240 e i 290 milioni di euro all’anno, secondo le diverse fonti ufficiali (Agenas, Anaao, Aiop).
A spingere i siciliani verso il Nord non è il capriccio dell’eccellenza, ma la necessità della sopravvivenza. Le patologie più frequentemente associate alla fuga sono tra le più delicate e complesse: cardiochirurgia, neurochirurgia, trapianti, chirurgia bariatrica, ortopedia ad alta complessità. Prestazioni che in Sicilia, in molte province, non solo mancano ma risultano talvolta inaccessibili per via di lunghe liste d’attesa o della carenza di personale. In alcune aree interne dell’isola, fino al 38% dei pazienti con bisogni specialistici deve spostarsi a Palermo o Catania, le uniche città che mantengono una parziale capacità attrattiva interna. Il resto dell’isola vive una desertificazione clinica mascherata da autonomia territoriale.
La rotta migratoria è chiara e consolidata: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto restano le mete preferite, e non a caso sono anche le tre regioni che raccolgono, da sole, oltre il 90% del saldo economico positivo della mobilità sanitaria nazionale. A livello complessivo, in Italia, la spesa per la migrazione sanitaria ha superato nel 2022 i 5,04 miliardi di euro, con un aumento del 18,6% rispetto al 2021. Nel 2023 si è mantenuta attorno ai 4,6 miliardi. In questo flusso, la Sicilia continua a imbarcare pazienti e a esportare budget.
La mobilità attiva
Ma esiste un controflusso? A malapena. La cosiddetta “mobilità attiva”, cioè i pazienti che scelgono strutture siciliane per curarsi, è residuale. Le uniche forme strutturate di ingresso sanitario sono legate all’assistenza prestata nei porti e negli hotspot a migranti e richiedenti asilo, e dunque non rappresentano un indice reale di attrattività del sistema. Né dal resto d’Italia, né dall’Europa o dal bacino del Mediterraneo si registrano numeri significativi di pazienti in ingresso. La Sicilia, in sostanza, cura i suoi e manda altrove chi ha bisogno di cure più complesse, senza ricevere nulla in cambio. Un sistema sanitario, quello regionale, che non solo perde pazienti, ma non riesce neppure a proporsi come alternativa credibile, nemmeno per le patologie di media intensità.
Secondo i dati contenuti nell’ultima relazione dell’Aiop (Associazione Italiana Ospedalità Privata), le strutture private convenzionate del Nord intercettano oltre il 50% dei pazienti in mobilità, e questa percentuale sale al 74% quando si tratta di prestazioni ad alta complessità. Non è un caso che molte famiglie siciliane si trovino costrette a intraprendere veri e propri viaggi della speranza per un intervento di chirurgia oncologica o una terapia salvavita, talvolta con costi non solo economici, ma anche logistici, emotivi e familiari insostenibili. I dati mostrano anche che circa l’11% delle prestazioni fuori regione risultano potenzialmente inappropriate, cioè si sarebbero potute (e dovute) erogare in Sicilia se il sistema fosse stato efficiente.
Le eccellenze regionali
Dentro questo scenario desolante, resistono isole di buona sanità pubblica. Reparti che funzionano, professionisti che garantiscono qualità e continuità, anche in territori lontani dalle grandi città. È il caso dell’Ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento, del Trigona di Noto e del Guzzardi di Vittoria, premiati per tre anni consecutivi per aver assicurato, nel 75% dei casi, l’intervento per frattura del femore entro 48 ore nei pazienti over 65, riducendo così complicanze e invalidità.
A Caltanissetta, il Policlinico Sant’Elia è rientrato tra i primi 25 ospedali italiani secondo la classifica ITQF; a Palermo, il Civico e il Buccheri La Ferla sono stati giudicati “eccellenti” per qualità delle cure e reputazione. A Catania, l’ARNAS Garibaldi e il Policlinico Rodolico-San Marco restano presìdi di alta specializzazione pubblica, con cardiochirurgia, trapianti, oncologia e neurochirurgia tra le punte di diamante. Il vicino Ospedale Cannizzaro, unico nel Sud a disporre della tecnologia Gamma Knife per trattamenti radiochirurgici cerebrali, è stato inserito nella top 100 nazionale.
Infine, l’ISMETT di Palermo — IRCCS a gestione mista ma pienamente integrato nel sistema sanitario pubblico — è centro di riferimento per trapianti multiorgano e medicina rigenerativa. Qui si realizzano trapianti da donatori viventi, anche pediatrici, ed è attiva una Cell Factory all’avanguardia.
Queste eccellenze esistono. Resistono. Ma sono isolate. Non bastano, da sole, a invertire un trend decennale. E non riescono a compensare un sistema che, fuori da queste oasi, perde pezzi e pazienti ogni giorno.
Il confronto
Il tema è oggi al centro di un acceso confronto politico, in vista della consegna al Ministero della Salute della nuova rete ospedaliera. Il documento, discusso in Commissione Salute all’Ars, è stato duramente contestato per la sua incompletezza e per l’assenza di una visione d’insieme. Secondo fonti di Radio Palazzo, così com’è rischia una bocciatura e un rinvio.
L’incontro con il Ministero è fissato per il 31 luglio. Sarà l’occasione per affrontare in modo definitivo la revisione dell’intera rete ospedaliera siciliana, che finora appare più come un aggiornamento tecnico che una riforma strutturale. Tanto clamore per un piano che appare incompleto su vari aspetti. Tra i nodi aperti c’è quello, delicatissimo, delle due cardiochirurgie pediatriche, una a Palermo, l’altra a Taormina, la cui coesistenza è ora oggetto di valutazione nazionale. Ma a far discutere sono anche scelte locali difficili da spiegare, come l’aumento dei posti letto a Paternò, o l’assenza di una direzione chiara per l’ospedale di Siracusa, ancora in attesa di definizione.
Nel frattempo, l’assessorato alla Salute continua a puntare sulla redistribuzione territoriale e sul rafforzamento del privato convenzionato, con il rischio concreto che la sanità pubblica finisca per arretrare ulteriormente. E a protestare non sono solo i professionisti del settore, ma anche numerosi sindaci, preoccupati per una pianificazione percepita come distante dai bisogni reali delle comunità.
E allora, la domanda è: questo è il modo giusto per garantire il diritto alla salute dei siciliani?