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L'era della "percezione"

Niccolò Machiavelli e il potere globale: l’eredita del “Principe” nel XXI secolo tra virtù, autorità e algoritmi

sabato 11 Ottobre 2025

Nel mondo contemporaneo, in cui il potere si esercita attraverso algoritmi, reti globali e decisioni prese in tempo reale, le riflessioni di Niccolò Machiavelli tornano con un’attualità sorprendente. Cinque secoli dopo “Il Principe”, le sue analisi sulla natura umana, sulla forza, sulla paura e sulla fortuna rivelano una lucidità che travalica i secoli.

Machiavelli osservava il potere nella sua “verità effettuale”, al di là delle apparenze e delle morali. Oggi, quella verità si manifesta nelle logiche economiche, nelle strategie militari e nella comunicazione politica dei governi e dei leader globali.

Niccolò Machiavelli- Uffizi di Firenze

Questo articolo continua il ciclo dedicato ai grandi interpreti classici della politica dopo Platone e Polibio. Machiavelli diventa lo specchio dal passato per leggere le tensioni e le dinamiche geopolitiche del XXI secolo: crisi d’imperi, leadership carismatiche, disuguaglianze globali e nuovi poteri digitali. La sua visione del potere come equilibrio fra virtù e fortuna si rivela straordinariamente attuale in un’epoca in cui la stabilità geopolitica dipende più dagli algoritmi e dalle reti che dagli eserciti.

Gli Stati Uniti affrontano una crisi di consenso e d’identità interna; l’Europa si dibatte tra burocrazia e perdita d’influenza; la Cina costruisce la propria egemonia economica e militare; l’Africa e l’America Latina cercano un riscatto in un mondo multipolare; il Medio Oriente resta un campo di tensione costante.

In questo scenario, Machiavelli sembra offrirci ancora le categorie fondamentali per comprendere la realtà del potere: virtù, fortuna, consenso, paura e realismo politico.

Il nuovo “Principe” non è un sovrano, ma un sistema di controllo e consenso che si rinnova nelle logiche dell’informazione e della percezione. In questo scenario, l’eredità di Machiavelli ci invita a guardare il potere non come colpa, ma come condizione della storia.

Esploreremo come i suoi insegnamenti — dall’arte di governare alla gestione delle crisi — restino una chiave per interpretare le nuove forme della geopolitica globale, mostrando come l’antico segretario fiorentino continui a parlare all’era dei dati, dei blocchi militari e dei conflitti invisibili.

 

Machiavelli: l’uomo, l’epoca, la crisi

 

Nicolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469, in un’Italia divisa e vulnerabile, segnata da invasioni straniere e da una profonda crisi politica. È un tempo di guerre e di alleanze mutevoli, di papi che fanno politica e di principi che combattono per la sopravvivenza.
Machiavelli osserva, analizza, e trasforma la realtà in teoria: il potere non è più questione di legittimità divina ma di intelligenza e decisione. L’uomo politico, scrive, deve saper leggere i segni del tempo e piegarli alla propria volontà.

Il Principe di Machiavelli

Da questa intuizione nasce la figura del “nuovo Principe”, un sovrano che conquista e mantiene il potere grazie alla virtù — intesa come capacità di azione — e alla padronanza della fortuna.

Machiavelli scriveva in un tempo di crisi. Firenze oscillava tra repubblica e principato, le potenze straniere si dividevano l’Italia, e la politica era un campo minato dove idealismo e sopravvivenza si intrecciavano. In questo contesto, Niccolò scelse di guardare la politica senza veli, rifiutando le illusioni morali e religiose del suo tempo. La sua grande intuizione fu che il potere non va giudicato, ma capito nella sua “verità effettuale”.

Cinque secoli dopo, il mondo attraversa un’altra fase di transizione: le democrazie sono logorate, i regimi autoritari si modernizzano, l’informazione è diventata una forma di guerra, e la ricchezza si concentra in pochi centri di potere tecnologico. Machiavelli, se vivesse oggi, vedrebbe che il suo Principe non indossa più una corona, ma un microfono, un algoritmo o una piattaforma digitale. Le armi del potere non sono solo spade o eserciti, ma reti di influenza, intelligence, comunicazione e denaro.

Scoprirebbe che il “nuovo Principe” non indossa una corona ma un algoritmo: è la leadership fluida e globale che plasma le percezioni pubbliche, domina la comunicazione e orienta il consenso. Dal presidente americano al magnate della tecnologia, fino al leader autoritario asiatico, la politica contemporanea si muove sul terreno che Machiavelli aveva già descritto: quello dell’efficacia e della rappresentazione.

Dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, si combatte una guerra invisibile per il controllo dell’economia, delle informazioni e delle menti. Eppure, il meccanismo resta lo stesso che Machiavelli aveva intuito: chi detiene il potere deve saperlo mantenere, equilibrando consenso e timore, virtù e fortuna, strategia e necessità.

Da Washington a Pechino, da Mosca a Bruxelles, la domanda resta la stessa di allora: come si conserva il potere quando il mondo cambia?

 

La “verità effettuale” del potere

In Il Principe, Machiavelli separa la politica dalla morale. Un sovrano, dice, non può permettersi di agire solo “come si dovrebbe”, ma deve agire “come si può”. Questo principio — la “verità effettuale della cosa” — è oggi la chiave per comprendere la crisi della leadership mondiale.

Donald Trump

Negli Stati Uniti, la politica vive una tensione costante tra ideali democratici e realpolitik spietata e “dritta al punto”. I presidenti parlano di libertà, ma le decisioni strategiche ruotano attorno all’energia, al commercio e alla sicurezza. La guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, il contenimento della Cina: ogni mossa americana è una combinazione di valori dichiarati e interessi concreti. È la versione moderna di ciò che Machiavelli definiva “necessità”.

Nel Principe, egli osserva che un sovrano deve imparare “a non essere buono”, se vuole sopravvivere in un mondo di inganni e potenze rivali. Così oggi, i leader globali oscillano tra diplomazia e coercizione, soft power e minaccia militare.

L’Europa, incapace di decidere autonomamente sulle grandi crisi, appare come l’Italia frammentata descritta da Machiavelli: priva di unità, condannata a subire le strategie altrui.

Putin e Xi Jinping

Mentre Pechino espande la sua influenza economica attraverso la Nuova Via della Seta, Bruxelles discute di vincoli di bilancio e di regole interne. La Cina, invece, sembra incarnare la versione asiatica del “principe nuovo”. Xi Jinping si presenta come garante della stabilità, unendo autorità e consenso, controllo e sviluppo. È la realizzazione moderna dell’ideale machiavelliano del leader che sa adattarsi alla fortuna: disciplinato, prudente, ma implacabile.

In Africa, dove la contesa per le risorse e l’influenza geopolitica si è intensificata, il potere è spesso instabile perché manca quella “virtù” — intesa da Machiavelli come capacità di governare le circostanze — che distingue il buon sovrano dal tiranno. Machiavelli scriveva che un principe deve fondarsi su basi solide: esercito proprio, leggi giuste, consenso popolare. Molti Stati africani, ancora legati a interessi esterni, restano vulnerabili perché non hanno completato quel processo di costruzione autonoma del potere.

Eppure, anche nell’instabilità, la “verità effettuale” del potere emerge: chi sa leggere il momento, come il Machiavelli consigliava, può trasformare la crisi in opportunità. È la lezione che i paesi del Sud globale (in particolare nell’Africa, Asia e America Latina) stanno tentando di applicare, sfruttando la competizione tra Stati Uniti, Europa, Cina e Russia per ritagliarsi spazi di autonomia.

In fondo, per Machiavelli, la politica non era mai un gioco di ideali, ma una battaglia contro la fortuna.

 

Virtù e fortuna: dal passato fino al mondo multipolare e ipertecnologico

 

Nel pensiero machiavelliano, la virtù è la forza d’agire nonostante la fortuna. È la capacità di costruire ordine nel caos. Oggi questa virtù si traduce in strategia geopolitica: adattarsi a un mondo multipolare, dove le potenze non dominano ma negoziano. Virtù e fortuna sono le due colonne del pensiero machiavelliano. La prima è la capacità umana di governare gli eventi; la seconda, la parte imprevedibile della storia.

Nel mondo globalizzato, la fortuna assume la forma dell’imprevisto: crisi finanziarie, pandemie, guerre, rivoluzioni tecnologiche. Chi ha virtù — cioè visione, coraggio e adattabilità — riesce a trasformare la tempesta in forza. Chi non ce l’ha, ne viene travolto.

Gli Stati Uniti, un tempo centro del mondo, sono diventati un impero stanco. Le guerre in Ucraina e Gaza mostrano la difficoltà di imporre un ordine, come Roma nel suo tardo impero. “Uno principe prudente,” scriveva Machiavelli, “deve fondarsi sopra quelle cose che sono in sua potestà.” Ma oggi l’America dipende da catene globali, algoritmi stranieri e mercati volatili: la fortuna non è più sotto il suo controllo.

Gli Stati Uniti, potenza che ha costruito il proprio dominio sulla fiducia nel progresso, hanno mostrato fragilità quando la fortuna ha voltato loro le spalle: la crisi dei subprime del 2008, le guerre infinite in Medio Oriente, la polarizzazione interna, fino ai recenti episodi di violenza politica che ne mettono in discussione la coesione.

L’Europa, invece, si è rifugiata nella prudenza, perdendo virtù. Le crisi economiche, migratorie e ambientali hanno mostrato l’incapacità di affrontare la fortuna con decisione. La Cina, al contrario, ha costruito un potere fondato su una combinazione di pianificazione e flessibilità: la virtù moderna del controllo adattivo. È la virtù dell’attesa, la pazienza strategica che Machiavelli avrebbe ammirato.

Nel Sud del mondo — in Africa, Asia e America Latina — la fortuna è più spesso una condanna che un’occasione. Ma anche qui emergono nuove virtù: la resilienza dei popoli, l’uso strategico delle risorse, la costruzione di alleanze regionali.

In un mondo frammentato, chi sa “dominare la fortuna” è chi controlla il tempo: non solo il presente, ma la narrazione del futuro.

E Come scriveva Machiavelli, “gli uomini offendono o per paura o per odio”; oggi gli Stati fanno lo stesso. La geopolitica del XXI secolo è il teatro dove virtù e fortuna si intrecciano in un equilibrio precario, dove l’audacia e il controllo determinano il futuro delle nazioni.

 

Il potere, la paura e il consenso: i parallelismi tra passato e presente

 

Uno dei passaggi più discussi del Principe è quello in cui Machiavelli si chiede se sia meglio essere amato o temuto. La sua risposta è secca: “È più sicuro essere temuto che amato, se non si può essere ambedue.”

DroniNel XXI secolo, la paura non si esercita con le armi ma con l’informazione. È la paura del declino, della crisi climatica, della perdita di lavoro, dell’altro. Gli algoritmi hanno sostituito la repressione con la suggestione: la paura diventa consenso. Nell’età della globalizzazione, questa massima ritorna sotto altre forme. Dalla sicurezza digitale al controllo delle frontiere, dalla sorveglianza tecnologica al linguaggio d’emergenza, dall’impiego crescente dei droni alla videosorveglianza la paura è diventata un ingrediente stabile del potere.

Crisi economica 2008

Negli Stati Uniti, la crisi del 2008 ha segnato un punto di rottura: Wall Street è crollata, ma il potere è sopravvissuto spostandosi nella tecnologia. È nata una nuova forma di “Principe”: l’élite digitale che governa senza apparire. Machiavelli avrebbe definito questa metamorfosi una prova di virtù. “Chi è padrone del presente,” scriveva, “può farsi signore del futuro.”

In Europa, la paura è diventata politica: dal populismo sovranista alle proteste francesi, dal risentimento tedesco al malessere italiano, la democrazia si regge sul timore del cambiamento. In Asia, invece, la paura è disciplinata.

La Cina la usa come strumento di coesione; la Corea del Nord come scudo; l’India come motore di orgoglio nazionale.

Il potere, oggi, non ha bisogno di soldati: bastano i dati. E chi controlla l’informazione, come insegnava Machiavelli, controlla il destino dei popoli. Eppure, anche oggi, il potere più solido è quello che riesce a combinare paura e consenso, autorità e fiducia.

Lo aveva capito Machiavelli, lo sanno i governi moderni. La stabilità, oggi come allora, è un equilibrio fragile tra libertà e controllo

 

Le guerre lontane e la crisi delle egemonie: corsi e ricorsi

 

War in Afghanistan (2001-2021)

Machiavelli vide Roma espandersi e poi logorarsi nelle guerre di conquista. Scrisse che “le guerre giuste sono quelle necessarie” e che ogni potere, combattendo troppo, consuma se stesso. Oggi, gli Stati Uniti ripetono quella lezione. Dopo l’Iraq e l’Afghanistan, le guerre di rappresentanza — dall’Ucraina al Medio Oriente — hanno eroso il proprio prestigio e credibilità.

La guerra a Gaza segna un punto simbolico: Washington non riesce più a imporsi come arbitro. È il riflesso della stanchezza imperiale, come nella guerra di Numanzia che logorò Roma più della vittoria stessa. Al contrario, la Cina e i paesi BRICS evitano lo scontro diretto: costruiscono potere attraverso credito, infrastrutture e diplomazia.

È una forma di guerra “morbida” che Machiavelli avrebbe riconosciuto come la più intelligente: vincere senza combattere.

La storia insegna che le guerre lontane diventano costose e inutili. Roma lo scoprì nel suo declino, gli Stati Uniti lo vivono oggi. Ma la guerra, avverte Machiavelli, è parte della natura del potere: chi non sa difendersi, è destinato a servire.

Un messaggio che oggi risuona chiaro e nitido soprattutto nei paesi europei.

 

Chi incarna oggi il “Principe del XXI secolo”?

 

L’algoritmo e la comunicazione plasma i leader mondiali

Chi è oggi il Principe? Non un uomo, ma un sistema. Il potere contemporaneo è diffuso, tecnologico, narrativo. Xi Jinping rappresenta la virtù disciplinata; Elon Musk l’audacia della fortuna; Putin la brutalità calcolata; Biden la fatica del mantenimento. Di Trump dedicheremo un capitolo a parte.

Eppure, il vero Principe è invisibile: l’algoritmo che decide ciò che vediamo, compriamo, votiamo. “I popoli,” scriveva Machiavelli, “sono più mossi dalle apparenze che dalla verità.” Nell’era dei social e dell’intelligenza artificiale, questa massima è diventata legge.

Il potere degli algoritmi risiede nella loro crescente capacità di guidare, controllare e influenzare le decisioni e i comportamenti umani in vari aspetti della vita, dalla selezione delle informazioni alle decisioni di business e alle interazioni sociali, dando origine all’algocrazia, un sistema di governance digitale basato su processi programmabili.

Un potere che solleva preoccupazioni riguardo la concentrazione di autorità, l’invisibilità del processo decisionale, la potenziale creazione di disuguaglianze e discriminazioni, e la riduzione della libera possibilità umana.

Il potere non governa con la spada ma con la percezione. Il consenso nasce dal racconto, e chi controlla la narrazione diventa sovrano. Machiavelli aveva intuito che l’arte del comando non è possedere, ma persuadere.

E il XXI secolo, immerso nella comunicazione, ne è la più fedele incarnazione.

 

Donald Trump: il Principe nell’era della percezione?

Nel panorama politico contemporaneo, Donald Trump è forse la figura che più si avvicina all’archetipo del Principe machiavelliano. Il suo modo di intendere il potere, la comunicazione e il consenso rispecchia in maniera sorprendente le logiche individuate da Machiavelli nel Cinquecento.

Trump non ha cercato di costruire un sistema nuovo: ha tentato di restaurare un ordine perduto, evocando un passato idealizzato attraverso lo slogan “Make America Great Again”. In questo gesto si riflette la consapevolezza machiavelliana della difficoltà di introdurre un cambiamento radicale: un leader non vince opponendosi frontalmente all’antico, ma rivestendolo di nuovi simboli e di una nuova forza emotiva.

Donald Trump

Come il Principe, Trump e la macchina comunicativa al suo seguito ha capito che la politica è innanzitutto una battaglia di percezioni. Ha fatto del gesto rapido e del colpo di scena la sua principale forma di azione: ordini esecutivi firmati in diretta televisiva, scontri immediati con i suoi avversari, decisioni improvvise ma altamente spettacolari, cambi di passo e di linea repentini che confondono e non lasciano punti di riferimento certi agli avversari politici interni e i leader mondiali.

In questo riflesso si ritrova l’intuizione di Machiavelli secondo cui la forza del potere non risiede tanto nella durata delle decisioni quanto nella loro tempestività.

La paura, per Trump, non è un effetto collaterale ma una risorsa politica. Egli costruisce la sua legittimazione definendo costantemente un nemico — interno o esterno — contro cui il popolo possa riconoscersi unito.

I giornalisti, i migranti, le élite globali diventano di volta in volta figure del disordine, indispensabili per alimentare la narrativa della minaccia. È una forma aggiornata della strategia machiavelliana del “farsi temere senza farsi odiare”: il potere che divide, ma seduce.

Trump cerca di rappresentare il passaggio dal Principe del potere reale al Principe dell’immagine. Governa non tanto gli eventi, quanto la loro rappresentazione. E in questa metamorfosi — tra politica, spettacolo e propaganda — si manifesta forse l’erede più autentico del pensiero machiavelliano nell’epoca dei social network e dell’emotività globale.

 

L’eredità di Machiavelli

Cinque secoli dopo, Machiavelli resta uno dei pensatori più attuali per decifrare il potere in chiave moderna. Non celebrava il cinismo, ma la lucidità: vedere il mondo com’è, non come dovrebbe essere. L’Italia del suo tempo, divisa e vulnerabile, assomiglia al pianeta di oggi: frammentato, attraversato da crisi e da nuove potenze.

Machiavelli non era un profeta del male, ma un osservatore della realtà. Per lui, la politica era un mestiere difficile, dove il bene e il male si confondono. Nel nostro tempo, dove il potere si misura in dati, consenso e sicurezza, la sua lezione è più viva che mai: non esistono regole eterne, ma solo capacità di adattamento.

Machiavelli

Dagli imperi digitali alle istituzioni globali, ogni potere deve affrontare la stessa sfida che Machiavelli poneva al suo Principe: saper riconoscere la fortuna, avere virtù per affrontarla, e usare la paura senza distruggere il consenso. Oggi, la geopolitica mondiale è un mosaico di crisi e ambizioni. Gli Stati Uniti cercano di mantenere un primato che si sgretola; l’Europa lotta per una voce comune; la Cina avanza con metodo; il Sud del mondo reclama spazio.

Nel disordine globale, Machiavelli ci ricorda che governare non è un’arte del dominio, ma dell’equilibrio: tra forza e consenso, tra realtà e illusioni, tra virtù e fortuna. E che la vera politica, allora come oggi, non è quella dei buoni propositi, ma quella che sa affrontare la verità effettuale delle cose.

Gli imperi non crollano: si spengono, perdendo il controllo della realtà. È ciò che accade all’Occidente, mentre il Sud globale costruisce la propria voce.

Il “nuovo Principe” non è un uomo, ma una rete: un intreccio di poteri economici, culturali e tecnologici. Eppure, la lezione di Machiavelli resta viva: sopravvive chi sa adattarsi al tempo e usare la Fortuna.

“La Fortuna è donna,” scriveva, “e bisogna, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”. Oggi, il vero erede di Machiavelli sarà chi avrà il coraggio di urtare la Fortuna – e di riscrivere le regole del potere.

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