Con questo terzo articolo si chiude il percorso iniziato con “La crisi moderna della classe media e delle strutture politiche e sociali” e proseguito con “L’etica del limite”, un viaggio dentro il pensiero aristotelico come chiave di lettura del presente.
Se il primo testo indagava la rappresentazione del potere e la costruzione del consenso nell’Europa contemporanea, e il secondo esplorava l’etica della misura di fronte alla potenza tecnologica dell’intelligenza artificiale, questo terzo articolo – “La città della mente” – affronta il punto di convergenza: la possibilità di una nuova polis, digitale e mentale, in cui l’uomo non sia mero spettatore o ingranaggio, ma progettista consapevole del proprio destino.
Nel cuore dell’era algoritmica, Aristotele ci insegna ancora che “la città esiste per rendere possibile la vita buona” (Politica, III, 9, 1280b). Ma che cosa significa “vita buona” quando la mente collettiva è distribuita tra server, reti neurali e intelligenze artificiali che apprendono più in fretta di noi?
Questo articolo tenta di rispondere a quella domanda, restituendo alla filosofia la sua funzione originaria: orientare l’azione umana nella complessità.
La città invisibile e visibile
Aristotele definiva l’uomo come “zoon politikon”, animale politico, ma in un senso più profondo di quanto spesso si ricordi: non solo cittadino di una comunità, ma essere che trova compimento solo nella relazione, nella parola, nel pensare insieme. Nel XXI secolo, questa relazione ha assunto nuove forme. La città non è più soltanto lo spazio fisico delle piazze e dei mercati: è anche la rete, lo spazio digitale dove si forma l’opinione, si scambia valore, si costruisce identità. L’agorà è diventata uno schermo retroilluminato.

Eppure, la domanda aristotelica rimane intatta: come possiamo vivere bene insieme? La polis contemporanea – fatta di algoritmi, connessioni e comunità virtuali – produce una forma di convivenza senza presenza, un dialogo senza corpo, una memoria senza storia. La filosofia, in questo contesto, torna ad avere il compito politico che Aristotele le attribuiva: “La saggezza pratica (phronesis) riguarda ciò che è bene e male per l’uomo” (Etica Nicomachea, VI, 5, 1140b). In altre parole, pensare è un atto politico.
La “città della mente” non è un’utopia, ma una realtà già in atto. È lo spazio dove l’intelligenza umana e quella artificiale si intrecciano, dove le decisioni collettive sono mediate da dati, previsioni, statistiche. Ma questa nuova polis ha bisogno, più che mai, di fondamenti etici e progettuali. Perché non basta programmare: bisogna sapere per quale fine si programma.
Il progetto come forma di conoscenza
Nella Metafisica Aristotele scriveva: “Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere»”(I, 1, 980a). È una delle frasi più potenti della filosofia antica: non un privilegio, ma una condizione naturale dell’uomo. La conoscenza, per Aristotele, non è un lusso ma una necessità vitale. Oggi, questo desiderio di conoscere si manifesta come progetto. Ogni gesto umano – dalla costruzione di un algoritmo all’organizzazione di una città sostenibile – è un atto progettuale, un tentativo di dare forma all’intelligenza.
L’epoca digitale ha trasformato la conoscenza in calcolo, la previsione in valore. Le grandi piattaforme, le reti neurali e le economie dei dati si fondano sull’idea che tutto sia traducibile in informazione. Ma Aristotele, che diffidava delle astrazioni pure, ci ricorderebbe che la conoscenza è inseparabile dal fine: “sapere perché e a che scopo”.
La città della mente è dunque una costruzione etica prima ancora che tecnica. Ogni decisione algoritmica – dal credito sociale alle previsioni sanitarie, dalla profilazione commerciale alla giustizia automatizzata – è una scelta di valore travestita da neutralità.
E come ricordava Aristotele nella Politica (I, 1, 1252b), “la città è una comunità di famiglie e villaggi per vivere bene, non semplicemente per vivere”. Il “vivere bene” implica una finalità, un “telos”. Se il progetto non ha un fine umano, degenera in puro esercizio di potenza.
Nelle città contemporanee – da Tallinn a Palermo, da Lisbona a Helsinki – la progettualità digitale è ormai parte della vita quotidiana: sensori ambientali, pianificazione tramite big data, gestione algoritmica del traffico, intelligenze urbane che apprendono dai cittadini. Eppure, ogni tecnologia resta cieca senza un principio di misura. Il filosofo avrebbe detto: senza logos. È il linguaggio che dà senso all’agire, e il progetto, per Aristotele, è una forma di linguaggio. Così, la città della mente non nasce da un codice binario, ma da un dialogo tra memoria e futuro, tra ragione e immaginazione.
La memoria e l’intelligenza artificiale
Nella “De Anima”, Aristotele distingue tra nous poietikos (intelletto attivo) e nous pathetikos (intelletto passivo). Il primo elabora, il secondo riceve. È un dualismo che sembra anticipare l’architettura delle moderne reti neurali: un livello che apprende dai dati, e uno che li trasforma in decisioni.
Ma Aristotele aggiunge qualcosa che l’IA tende a dimenticare: l’intelletto umano non è soltanto calcolo, è anche desiderio e memoria.

La memoria, infatti, non è semplice archiviazione: è interpretazione del tempo. “Ricordare è un certo movimento dell’anima” (De Memoria et Reminiscentia, 450a). E qui la distanza tra l’uomo e la macchina si fa abissale. Le intelligenze artificiali memorizzano, ma non ricordano: conservano informazioni senza attribuire loro senso. L’uomo, invece, costruisce la propria identità nel tempo, dà forma alla storia.
Nel mondo digitale, la memoria collettiva è diventata fragile. I social network generano presente continuo, le piattaforme cancellano l’oblio. Tutto resta, ma niente pesa. Aristotele avrebbe visto in questo una forma di hybris, di eccesso: la pretesa di un sapere senza limite.
Nel mondo greco, l’eccesso era il contrario della virtù. La “sophrosyne”, la temperanza, era la qualità che consentiva di abitare il mondo senza dominarlo. Applicata all’IA, la sophrosyne diventa capacità di riconoscere il limite del calcolo. Perché ogni decisione automatizzata comporta una perdita di comprensione: riduce la complessità al prevedibile.

In molte città europee si sperimentano oggi forme di intelligenza civica: piattaforme di partecipazione, deliberazione digitale, urbanistica predittiva. Eppure, anche in questi casi, il rischio è che l’uomo abdichi alla propria responsabilità, lasciando che siano i dati a decidere per lui.
La polis aristotelica, invece, si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini, sulla deliberazione come forma di libertà. Come scriveva: “È proprio dell’uomo libero partecipare al governo della città” (Politica, VII, 3, 1325a). L’intelligenza artificiale può dunque essere strumento di libertà solo se diventa spazio deliberativo, non semplice automatismo.
L’intelligenza progettiva è quella che unisce memoria e immaginazione: ricorda per prevedere, ma non rinuncia al giudizio. È ciò che distingue l’uomo tecnico dal cittadino pensante.
L’uomo tecnico e l’illusione della perfezione
Nell’era della tecnica, la perfezione è diventata l’idolo moderno. Ogni algoritmo promette efficienza, ogni dispositivo mira alla precisione assoluta. Ma Aristotele avrebbe considerato tutto ciò un errore di prospettiva. La perfezione, scriveva nella Fisica (III, 1, 200b), è ciò che ha raggiunto il proprio fine. E il fine dell’uomo non è la perfezione, ma la felicità (eudaimonia).
La civiltà digitale, invece, misura tutto in termini di prestazione: produttività, velocità, performance. È la logica dell’automatismo che trasforma la vita in un esperimento permanente. L’uomo tecnico crede di emanciparsi dalla natura, ma finisce per diventare parte di un sistema che lo supera. Aristotele ci avverte: “La tecnica ha origine dall’esperienza, ma quando da molte esperienze nasce un concetto universale, nasce l’arte” (Metafisica, I, 1, 981a).
L’arte, per lui, è sapere creativo: non replica la realtà, la reinterpreta. L’uomo tecnico, invece, confonde l’arte con la funzione, la conoscenza con la performance.
L’illusione della perfezione è anche etica: l’idea che la tecnologia possa risolvere ogni conflitto, ogni incertezza, ogni limite. Eppure, la vita è fatta di imperfezioni. È lì che si misura la virtù. “La virtù morale è una disposizione acquisita, consistente in una medietà” (Etica Nicomachea, II, 6, 1106b). In altre parole, la virtù nasce dal confronto con l’imperfezione, non dalla sua eliminazione.
Le società contemporanee – dalla Silicon Valley a Shenzhen – sembrano aver sostituito il concetto di bene con quello di efficienza. Ma l’efficienza, priva di misura, diventa crudeltà: algoritmi che licenziano, predicono recidive, selezionano vite. L’uomo tecnico, in questo senso, non è più il soggetto del progresso, ma il suo effetto collaterale.
Recuperare Aristotele significa ricordare che la tecnica non è destino, ma scelta. È il modo in cui orientiamo il nostro logos nel mondo. E la perfezione, se intesa come armonia tra scopo e mezzo, non è l’assenza di errore, ma la presenza di senso.
La virtù come misura del digitale
La domanda che attraversa il nostro tempo non è più “che cosa possiamo fare”, ma “che cosa dobbiamo fare con ciò che possiamo fare”. Nel mondo dell’IA, dove tutto è possibile, la virtù torna a essere il confine del pensiero. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, definisce la virtù come “un abito scelto, consistente in una medietà relativa a noi” (II, 6, 1106b). La virtù, quindi, non è un comando esterno, ma una scelta interiore proporzionata al contesto.
Educare la tecnologia significa insegnarle la misura. Ma poiché le macchine non apprendono virtù, l’unico modo per “educarle” è educare gli uomini che le programmano. Ecco perché Aristotele resta il più attuale dei filosofi. La sua etica non è un elenco di norme, ma una pratica della responsabilità. Nel mondo digitale, questa responsabilità si traduce in progettazione consapevole: algoritmi trasparenti, rispetto della privacy, inclusione dei soggetti vulnerabili, difesa dell’autonomia umana.
La città della mente è anche la città della virtù condivisa. Ogni comunità digitale, ogni piattaforma partecipativa, può diventare scuola di misura o laboratorio di eccesso. Sta a noi decidere quale forma di intelligenza collettiva vogliamo costruire.
Nell’ultimo libro della Politica (VII, 15, 1334a), Aristotele scrive che “la vita migliore per ogni città è quella vissuta secondo virtù”. Nel XXI secolo, questa frase può essere letta come manifesto per l’era dell’IA: non temere la tecnologia, ma renderla parte di una vita virtuosa.
La virtù, in fondo, non è altro che intelligenza incarnata, misura che dà forma al possibile.
La mente come città
Ogni epoca costruisce la propria città ideale. Platone la immaginava nella Repubblica, Aristotele la vedeva nella realtà dei cittadini che deliberano insieme. Oggi, la città ideale si è spostata nel regno della mente collettiva: un intreccio di dati, immagini, memorie e desideri che attraversano continenti e server.
La città della mente non è un luogo fisico, ma una forma di convivenza. È la prova più radicale del pensiero aristotelico: l’uomo è politico perché pensa con gli altri.

In questa nuova polis digitale, la filosofia torna a essere necessaria. Non come nostalgia del passato, ma come intelligenza progettiva del futuro: la capacità di connettere sapere e valore, tecnica e senso, individuo e comunità.
“La causa finale è il bene”, scriveva Aristotele nella Metafisica (XII, 7, 1072b). È una frase che chiude idealmente questo percorso: la causa finale, oggi, è la costruzione di una civiltà capace di pensare il bene comune anche dentro l’algoritmo.
Solo così la mente collettiva potrà diventare, davvero, una città.





