C’è qualcosa di nuovo, e un po’ inquietante, nella mappa gastronomica italiana. Lo ha raccontato il New York Times in un reportage che analizza come due simboli globali, lo spritz e la carbonara, siano diventati protagonisti di una trasformazione profonda.
Il quotidiano americano l’ha chiamata “foodification“, quella che è a tutti gli effetti una vera e propria colonizzazione del gusto. Un fenomeno che non riguarda più soltanto Roma o Firenze, ma che ormai investe in pieno anche le grandi città della Sicilia. La foodification non è solo un’evoluzione economica ma una vera e propria metamorfosi culturale che riscrive il senso stesso dell’abitare. Dove un tempo c’erano botteghe, artigiani, mercati, oggi ci sono bistrot e franchising. Il paradosso è quindi evidente. L’Italia, che ha costruito la propria immagine nel mondo sull’autenticità della sua cucina, rischia ora di perdere proprio quella autenticità, sostituita da una versione “da vetrina” pensata principalmente per i social network.
Il fenomeno palermitano

In questo scenario, Palermo rappresenta forse il caso più emblematico. Città di contrasti, di cultura e di stratificazioni, Palermo ha sempre fatto del cibo un linguaggio identitario in cui lo street food, i mercati storici, le trattorie di quartiere erano parte viva della sua anima. Oggi però, camminando lungo via Maqueda o corso Vittorio Emanuele, si ha l’impressione di trovarsi in una lunga passerella gastronomica, più che in un centro storico. Tavolini e ombrelloni occupano ogni spazio, i menù si ripetono con minime variazioni, le insegne sembrano parlano sempre più inglese.
Basti fare pochi passi nel centro storico di Palermo per accorgersene. Lungo le vie del centro, ogni nuovo locale somiglia al precedente con stesse insegne bilingue, stessi menu, stessi tavolini allineati per la foto perfetta. Il cibo, un tempo linguaggio dell’identità, della memoria e della comunità, diventa scenografia, consumo rapido, vetrina per turisti.
E mentre il New York Times ammonisce sul rischio di trasformare l’Italia in un “parco tematico del gusto”, a Palermo si festeggia l’imminente apertura di un Hard Rock Café proprio in via Maqueda, una strada già satura, stretta, spesso difficile da attraversare anche per i residenti che sempre più decidono di “fuggire” da questi luoghi.
Passeggiando per Palermo, capita poi di imbattersi una nuova pizzeria dal nome altisonante che non vende fette di pizza, ma “slices”. Non propone la “pizza con salame”, ma la “pepperoni pizza”. Le dimensioni non sono “singola” o “familiare”, ma “35” o “45”, proprio per venire incontro ad un linguaggio più immediato ed internazionale. Tutto ciò in pieno centro dove sarebbe sbagliato etichettare ciò come una semplice curiosità linguistica ma piuttosto come un vero e proprio segnale culturale. Un modello globale di consumo che riscrive quindi persino il nostro lessico quotidiano.
La foodification è il volto gastronomico della gentrificazione
Nei centri storici, gli affitti aumentano, i residenti si spostano, le case diventano B&B e i negozi di quartiere spariscono. Al loro posto nascono locali fotocopia che servono carbonare impiattate per Instagram e spritz al tramonto. È un’economia che genera ricchezza, ma anche disuguaglianze. A guadagnarci sono in pochi, mentre la città reale perde abitanti e spazi di socialità autentica.
Il turismo enogastronomico, d’altra parte, è ormai una delle colonne portanti dell’economia italiana e siciliana. I dati parlano chiaro: nel 2024, l’Isola ha accolto quasi oltre 21, 5 milioni di presenze, un numero senza precedenti che ha portato a un sovraffollamento delle principali destinazioni turistiche. Ma la domanda da porsi è un’altra: a quale prezzo? Se ogni strada diventa un ristorante e ogni esperienza è costruita per i turisti, cosa resta ai cittadini che la città la vivono ogni giorno?
La “foodification” non è solo un tema gastronomico ,a piuttosto urbanistico, sociale e identitario. Ogni nuova apertura viene salutata come una vittoria del turismo, ma raramente ci si chiede cosa chiude, cosa scompare, chi se ne va. Dietro ogni bistrot internazionale c’è spesso una bottega che non ce l’ha fatta, un affitto salito troppo, un pezzo di città perduto.
Palermo, con la sua energia e il suo caos, rischia di diventare la caricatura di sé stessa. Una vetrina di folklore e street food globalizzato, dove la vita autentica arretra un po’ ogni giorno, spinta ai margini dalle logiche del profitto e della spettacolarizzazione. Se davvero vogliamo un turismo sostenibile e un centro storico vivo, bisogna tornare a pensare le città come luoghi per chi le abita, non solo per chi le fotografa.




