Dall’alto lo spettacolo delle città che le immagini televisive e dei droni ci mostrano, è lo svuotamento. È la primavera del coronavirus e il cielo è azzurro, l’aria tersa e gli alberi e i prati sembrano indifferenti, tra case, palazzi e monumenti.
Sembra quasi affascinante questo svuotamento. Dicono che ci sia un silenzio surreale. E invece no, non è surreale, è il realissimo silenzio che ci avvolge e stordisce come quando in un treno in corsa, prima di entrare in una galleria oscura, si chiudono i vetri del finestrino e il vocio sfrenato del vento si arresta di colpo. È un silenzio ancora più denso e inquietante quello che mi avvolge se mi affaccio dal mio balcone al dodicesimo piano di via Leonardo da Vinci, in una Palermo che ha perduto quel caos di voci, rumori, stridori di freni e il consueto andirivieni di automobili e persone. Latrano cani nella notte, abbaiano di giorno cani solitari chiedendosi forse dove siano finiti gli abitanti e il loro rumoroso vivere quotidiano. La città silenziosa e immobile, come era impossibile pensarla appena poco più di un mese fa, grida da questo vuoto silenzio non più “cantatore” come suonava l’antica melodia napoletana, ma produttivo come una geremiade da cui fioriscono pensieri, propositi e utopie.
Questo vuoto si affolla, lo sentiamo pieno, reale come il nostro respiro, come il volo del gabbiano ramingo che cerca invano il cibo là dove prima lo ammassavano gli uomini quando il caos regnava sovrano. Ora invece il vuoto è ricolmo, pieno di silenzio. Un vuoto pieno di silenzio.
La pienezza del vuoto ora non è più solo un ossimoro ma una verità che semplicemente si rivela ai nostri occhi e al nostro udito, come anche la scienza ci racconta quando spiega che ciò che noi consideriamo il vuoto interstellare, è invece uno spazio produttivo dal quale altre stelle e altri mondi fioriscono nel cosmo della vita. E così, questo silenzio si riempie dei nostri pensieri e soffia sulla nostra coscienza la precarietà dell’essere e delle cose ma anche la loro resistenza. La nostra resilienza.
Ho pensato alla recente conversazione tenuta a Palermo durante la settimana dantesca, dal fisico Guido Tonelli che nel suo libro, Genesi, narra l’origine della vita secondo le ultime e più accreditate scoperte scientifiche e ai versi che mi ha ispirato quella sua immagine che oggi mi ritorna, osservando dal mio balcone l’orizzonte della Conca d’Oro che si dilata fino all’orizzonte marino seguendo, dal Monte Cuccio al Monte Pellegrino a Capo Zafferano, la trama ineguale di strade, case, palazzi e monumenti che ignorano questo silenzio e i secoli di storia che solo noi uomini possiamo abbracciare nella nostra memoria debole e persistente. Oggi vi è ancora bisogno di questo racconto che partendo dai sette giorni biblici giunge fino ai buchi neri, al vuoto originario che nel suo nulla contiene lo zero,materia e antimateria che fluttuando si ingravidano nel caos che nasconde lo zero e si evolve in catastrofi, in una crescita esponenziale e incandescente di spazio-tempo nell’energia gravitazionale e nell’attrazione tra protoni ed elettroni che si fanno materia e poi ritornano allo zero e al vuoto da cui rinascono altri universi, per ricominciare il corso indefinibile della vita.
Siamo in questa lunga e oscura galleria pandemica e dentro il silenzio improvviso del treno che continua la sua corsa mentre fuori l’aria è tersa e i monumenti parlano diffidando della precaria armonia che i Sapiens sanno creare e disfare, cercando il bello che l’universo nasconde nel silenzio del suo presunto vuoto:
L’incubo non inizia è sempre pronto
a inghiottirti nel gorgo del suo vuoto
che confonde la vita e la rinnova
nella morte che danza l’avventura
del ritorno alla luce e alla silente
musica in divenire della nota
inudibile e lieta del respiro
del tempo che trascina nel suo spazio
i corpi astrali volti alla gran fuga
nel desiderio dell’incandescenza
dove esplode rinasce e si consuma
ogni attesa al congaudio d’amore
che si fa stella e insegue altra avventura
nel grande ventre caos del cosmo.