Al centro del nostro racconto c’è Lisabetta da Messina, leggendaria fanciulla siciliana citata nel Decamerone di Boccaccio. Immaginiamo i dieci giovani, sette donne e tre uomini che, per sfuggire alla peste nera del 1348, lasciano la flagellata Firenze per rifugiarsi in campagna. Per trascorrere il tempo si danno a canti, balli, giochi, preghiere e, nelle ore pomeridiane, si cimentano, a turno, nel racconto di una novella, tranne il venerdì e il sabato. Tra queste, quella che a noi interessa ha la voce di Filomena che, nella IV giornata, condivide con i compagni la V novella in cui protagonista è la già citata Lisabetta da Messina, la cui storia è una versione “altra” delle Teste di Moro.
Lisabetta da Messina
Elisabetta o Lisabetta era una nobile e benestante fanciulla che viveva a Messina con i tre fratelli diventati, dopo la morte del padre, suoi custodi e tutori, a loro modo amorevoli, in realtà soffocanti, perché divorati da insana gelosia nei suoi confronti. Un destino d’amore e morte attendeva la giovane che si innamorò, ricambiata, del pisano Lorenzo, che si occupava dei beni di famiglia.
I germani, venuti a conoscenza del sentimento appena sbocciato con la scusa di un affare fuori città, uccisero il ragazzo senza pensare al dolore che avrebbero inferto a Lisabetta, giustificando, al loro ritorno, la sua assenza con un impegno che lo avrebbe tenuto lontano per qualche tempo. I giorni, però, trascorrevano, spietati, senza alcuna notizia e la fanciulla cominciò a preoccuparsi e disperarsi.
La sua ansia venne acuita da un sogno in cui Lorenzo le appariva rivelandole dove era stato stato ucciso dai suoi fratelli. La mattina, appena sveglia, con la sua dama di compagnia, si recò nel luogo indicato e fece una macabra scoperta, quella del corpo senza vita del suo amato e, non avendo la forza di trasportarlo e dargli una degna sepoltura, per averlo sempre con sé decise di recidergli la testa in ricordo di quel breve e indimenticabile amore. Arrivata a casa, la mise in un vaso in cui piantò del basilico salernitano che, ogni giorno, innaffiava con copiose lacrime. I fratelli insospettiti dal curioso comportamento, perfidi fin nel midollo, le rubarono il vaso e, trovandoci dentro la testa del bel Lorenzo, liberandosene e temendo che i messinesi scoprissero la storia, fuggirono a Napoli, trasferendo i loro affari nella città del Vesuvio. La povera Lisabetta, ammalatasi, morì invocando il suo vaso nel quale era seppellito l’uomo dei suoi sogni.
Curiosità
Al racconto di Boccaccio si ispirarono due giganti della letteratura europea: il primo è uno dei più grandi poeti inglesi, John Keats, vissuto per tre anni a Roma, dove morì a soli 25 anni, che scrisse un poema intitolato “Isadella, or Pot of Basil“, cambiando solo il nome della protagonista. Ecco alcuni versi del poema, che sono quelli che Lorenzo recita dall’altrove:
“Dolcissima Isabella,
rossi mirtilli pendono sul mio capo
e un’ampia pietra pesa sui miei piedi;
intorno faggi ed alti castani spargono
le loro foglie e gli spinosi frutti: un belato
giunge dall’altra sponda del fiume al mio letto.
Riversa una lacrima sulla brughiera in fiore,
essa sarà di conforto nel mio sepolcro…”
Pier Paolo Pasolini, nel suo discusso Decameron del 1971, premiato con l’Orso d’argento al XXI Festival di Berlino, volle il racconto di Lisabetta nella sceneggiatura del film.
Passando dalla letteratura alla pittura, la fanciulla messinese colpì l’immaginario di William Holman Hunt (Londra 1827-Kensington 1910) che dipinse nel 1867 “Isabelle with the Pot of Basil“, iniziato durante il viaggio in Italia con la moglie in cui la fanciulla dai lunghi e fluenti capelli scuri, cinge languidamente e amorevolmente un vaso di basilico; di Sir John Everett Millais in “Lorenzo and Isabella“del 1849, che interpretò anch’egli pittoricamente la vicenda.
Un autore anonimo, inoltre, scrisse la ballata popolare della “Canzone del basilico“, di cui riportiamo qualche stralcio, che ci è pervenuta nelle “Cantilene e ballate dei secoli XII e XIV” curate da Giosuè Carducci e che, forse, conosciuta già nella Firenze di Giovanni Boccaccio, lo ispirò.
“Qual esso fu lo malo cristiano
che mi furò la mia grasta
del basilico selemontano?
Cresciut’era in gran podeta,
e io lo mi chiantai colla mia mano:
fu lo giorno de la festa.
Chi guasta – l’altrui cose, è villania.
Chi guasta – l’altrui cose, è villania.
e grandissmo peccato.
E io, la meschinella, ch’i m’avia
una grasta seminata!
Tant’era bella, ch’a l’ombra stasia
da la gente invidiata.
Fummi furata -davanti a la porta.
Fummi furata -davanti a la porta:
dolorosa ne fu’ assai.
Ed io, la meschinella, or fosse io morta,
che sì cara l’accattai!
E’ pur l’altrier ch’i n’ebbi mala scorta
dal messere cui tanto amai.
Tutta la ‘ntornai di maiorana.
Tutta la ‘ntornai di maiorana:
fu di maggio lo bel mese-
Tre volte la ‘nnaffiai la settimana,
che son dozi volti el mese,
d’un’acqua chiara di viva fontana.
Sir’Idio, come ben s’aprese!
Or è in palese -che mi fu raputa.
Or è in palese -che mi fu raputa:
non lo posso più celare.
Il basilico, origini e credenze
Il Basilico tra origine e leggenda
Il Basilico venne importato in Europa da Alessandro Magno intorno al IV secolo a. C., di ritorno da una campagna in Asia, nei pressi dell’India. Insieme alla pianta arrivò la leggenda di una ragazza di nome Vrinda, la cui storia era popolata di divinità, angeli e demoni, colpita al cuore dalla morte del suo sposo. La giovane, impazzita, si lasciò bruciare viva sulla pira del suo amato. Per tramandarne la memoria e la devozione, gli dei Indù trasformarono i suoi lunghi capelli, arsi dal fuoco, in una pianta dal profumo soave chiamata Tulsi, ordinando ai sacerdoti di venerarla.
In Europa Vrinda diventa, probabilmente, Lisabetta e il Tulsi, invece, il Basilicum, pianta contraddittoria, la cui freschezza contrasta con il potere afrodisiaco che può condurre alla follia. A tal proposito vi consigliamo il libro di Giuseppina Torregrossa “Il basilico di Palazzo Galletti“, che profuma di Sicilia e mistero come la storia leggendaria che vi abbiamo raccontato.
In Sicilia, per vendetta o per amore, state attenti perché le teste si perdono.