Ho sempre ritenuto che uno dei fattori che, maggiormente negli ultimi anni, ha contribuito alla perdita di credibilità della magistratura e in definitiva alla sua stessa delegittimazione, con il conseguente affievolimento di quei principi di imparzialità e indipendenza sui quali, in uno stato di diritto deve, a garanzia di tutti i cittadini, fondarsi il potere giudiziario, sia da ricercare nella sempre più frequente e preoccupante contiguità di alcuni settori della magistratura stessa con questa o quell’area politica o per dirla in una parola, nella politicizzazione del giudice. Convinzione oggi vieppiù rafforzata dalle recenti cronache.
Tale fenomeno non soltanto, come purtroppo è dato sempre più frequentemente constatare, si è, di fatto, manifestato in occasione di inchieste penali che hanno coinvolto politici, pubblici amministratori, personaggi del mondo imprenditoriale, ma in passato la politicizzazione del giudice è stata addirittura esplicitamente teorizzata da alcuni appartenenti allo stesso ordine giudiziario aderenti a quella che con un termine ormai usuale potremmo definire “l’area progressista” della magistratura.
In un convegno di magistrati ,parecchi anni fa a Gardone, uno dei relatori sostenne la necessità che la magistratura assumesse un proprio ruolo politico e ciò per la considerazione che la funzione giurisdizionale è un’attività essenzialmente politica. E ancora, in altro congresso della Associazione nazionale magistrati, svoltosi a Trieste, anche questo alcuni anni or sono, si sostenne, da parte di qualche magistrato di quell’area progressista di cui si è detto, che, essendo l’imparzialità del giudice una mera utopia, fosse necessaria e anzi doverosa la parzialità e la politicizzazione del giudice stesso il quale dovrebbe operare una scelta a favore dell’una o dell’altra parte politica, dell’una o dell’altra classe e a questa scelta improntare la propria attività giurisdizionale. Non sono poi mancati quei magistrati (si pensi ai c.d. “pretori d’assalto” di triste memoria) che ritennero di doversi attribuire il ruolo di mediatori esclusivi dei conflitti sociali, mediazione che si esplicava in funzione di quelle che erano le loro idee politiche e che consentiva loro di pervenire a decisioni giurisdizionali apertamente in contrasto con la legge vigente. Senza parlare poi di quei magistrati che in pubblici convegni si sono dichiarati “riformisti” e che hanno sostenuto doversi identificare la funzione del giudice in un vero e proprio “dovere di resistenza al potere,” Ma ci si è spinti ancora oltre. In una mozione approvata il 30.11.1969, da Magistratura democratica, si è auspicata una selezione politica dei magistrati, destinata a sostituire, in palese violazione dell’art.51 1° comma della Costituzione, il reclutamento fondato sulla competenza tecnica.(art.106 1° comma Costituzione) Si auspicava, in altri termini, un controllo ideologico sui giudici. In passato poi, illustri giornalisti, (BOCCA) ,sempre della cosiddetta area progressista, non potendo probabilmente negare l’evidenza, hanno ammesso che” una magistratura democratica, sottoposta ai condizionamenti e alle intimidazioni del potere, abbia cercato un protettore nel partito comunista che dal potere era estromesso.”
Dimenticano gli illustri sostenitori di siffatte teorie che nella Costituzione italiana è stato fondamentalmente attuato il principio della separazione dei poteri per cui, accanto ad un potere legislativo, la cui funzione è quella di creare delle norme generali e astratte, vi è un potere giudiziario la cui funzione è esclusivamente quella di applicare tali norme ai casi concreti e un potere esecutivo cui spetta determinare l’indirizzo politico che condiziona tutta l’attività dello Stato nel suo complesso. Il Montesquieu, nel formulare per primo il principio della separazione dei poteri, osservò che tale distinzione costituiva la migliore garanzia per la libertà dei cittadini. Se quindi d’indirizzo politico della magistratura si deve parlare, questo non può essere inteso che come rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione (principi etici ,sociali, economici ,di libertà ) che devono considerarsi il prodotto delle scelte politiche del Costituente; rispetto dei principi che, per il magistrato, non può peraltro considerarsi una scelta politica ma un ben preciso obbligo giuridico.
A prescindere da queste affermazioni di principio, è comunque un dato di fatto innegabile che sin dagli anni 70 si è verificata quella che un elemento laico del passato C S.M, in un suo intervento al plenum del Consiglio, definì “la strategia della infiltrazione egemonizzante” .Basti pensare come in quegli anni si è assistito all’occupazione, da parte dei magistrati della corrente progressista, dei posti di Pretore del lavoro si da potere gestire, secondo le proprie ideologie politiche, il conflitto tra lavoratori ed imprenditori.
Per citare qualche esempio concreto è rimasto famoso quel Pretore che con sentenza istituì il numero chiuso in una facoltà universitaria o quel Pretore del lavoro che, partendo evidentemente dal presupposto che il lavoratore ha sempre e in ogni caso ragione, reintegrò nel posto di lavoro il dipendente che, essendo stato sorpreso a intrattenere una relazione con la moglie del proprio datore di lavoro, era stato da quest’ultimo licenziato. Il Pretore in questione motivò la decisione sostenendo che quella situazione non integrava la “giusta causa “ di licenziamento e che non era tale da incrinare il rapporto di fiducia che deve necessariamente intercorrere tra lavoratore e datore di lavoro e il cui venir meno non può non portare alla risoluzione del rapporto di lavoro. O ancora si pensi alla conquista delle Procure di maggiore importanza strategica e della stessa Direzione nazionale antimafia. E ciò al fine di realizzare ,come è stato osservato dal già citato componente del C.S.M. ,”l’idea del processo penale come strumento di aggressione borghese o l’idea della accusa penale da fare valere come arma di attacco politico. “E sempre il suddetto componente ha evidenziato come in particolare a Palermo, a Napoli, a Roma , a Milano si assiste ad un continuo afflusso di magistrati di M.D. e Verdi, la cui presenza appare ormai largamente maggioritaria quasi dappertutto., mentre a Bologna e nell’Emilia Romagna ,e cioè nelle Procure delle aree a forte radicamento pidiessino, la presenza di M.D. e Verdi è tradizionalmente altissima, raggiungendo oggi quasi i due terzi del totale. D’altronde non bisogna dimenticare che all’inizio degli anni 80, il segretario regionale del P.C.I., Pio La Torre sostenne che “il popolo senza la magistratura non può farcela, la magistratura senza il popolo non può resistere “Il che altro non significa che la teorizzazione della “via giudiziaria al socialismo” e cioè l’uso dello strumento giurisdizionale per il sovvertimento degli equilibri di potere esistenti, quando tali equilibri non sia possibili mutare mediante le normali dinamiche elettorali.
Non vi è chi non veda l’estrema pericolosità di siffatte teorizzazioni e delle conseguenti concrete attuazioni che finiscono con il legittimare quei gravi sconfinamenti del potere giudiziario in danno dell’esecutivo e del legislativo e ciò in violazione del principio della separazione dei poteri che, attuato dalla nostra Costituzione, rappresenta la migliore garanzia per la libertà dei cittadini. Sconfinamenti che negli ultimi anni certamente si sono verificati sia per il clima politico determinatosi nel nostro Paese ove la lotta politica ha assunto toni particolarmente aspri e violenti sia, come si è detto, per la presenza all’interno della magistratura di giudici molto ideologizzati o comunque contigui a determinate aree politiche, per lo più di sinistra. Il che ha dato luogo a un fenomeno preoccupante costituito dall’uso sempre più frequente della giurisdizione come arma di lotta politica; obiettivo che è perseguito soprattutto attraverso lo strumento dell’inchiesta penale spesso finalizzata a un’azione di appoggio a favore di una delle parti impegnate in uno scontro politico per la determinazione dell’indirizzo di governo.
Non vi è dubbio che uno degli strumenti che maggiormente si presta al perseguimento delle suddette finalità è l’istituto dell’informazione di garanzia il cui precedente legislativo è costituito, come si ricorderà, dall’analogo istituto della comunicazione giudiziaria. Ciò che indusse il legislatore a trasformare la comunicazione giudiziaria in informazione di garanzia, fu la constatazione che la prima, anziché assolvere a quelle finalità di garanzia per le quali era stata istituita, aveva, mediante un uso talvolta distorto e spesso disinvolto, finito con il determinare notevoli lesioni della reputazione di indiziati che poi, magari, a conclusione delle indagini, finivano con il risultare completamente esenti da responsabilità pagando così, sia in termini di immagine sia di costi umani, un prezzo elevatissimo. La differenza tra la comunicazione giudiziaria e l’attuale informazione di garanzia non è soltanto lessicale ma sostanziale dato che quest’ultima, così come disciplinata e se correttamente utilizzata da parte del magistrato, contempera l’esigenza di garanzia che è propria di tale istituto con l’esigenza, del pari rilevante, di evitare i danni di cui si è detto e che si verificavano appunto con la comunicazione giudiziaria. Pertanto mentre la comunicazione giudiziaria doveva essere inviata sin dal compimento, da parte del pubblico ministero “del primo atto di istruzione “, l’informazione di garanzia deve essere data soltanto “sin dal compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere “Differenza questa di non poco conto perchè ciò comporta che il pubblico ministero, ricevuta la notizia di reato, potrà svolgere tutte le indagini preliminari che riterrà necessarie e al termine, ove l’ipotesi di reato dovesse risultare infondata potrebbe richiedere l’archiviazione e ciò senza che sia necessario inviare all’indagato alcuna informazione di garanzia. Che invece si renderà necessaria soltanto se, nel corso delle indagini, si ravvisi la necessità di interrogare l’indagato o di procedere a una perquisizione o a un sequestro.
Fatte queste premesse non vi è dubbio che costituisce uso distorto della informazione di garanzia l’invio della stessa (come spesso avviene) nella fase iniziale delle indagini preliminari senza che segua un atto cui debba assistere il difensore (ad esempio l’interrogatorio dell’indagato) o quando tale atto istruttorio avvenga a distanza di parecchio tempo dall’invio della informazione di garanzia che nel frattempo è stata ampiamente pubblicizzata attraverso i mass media. Ed è proprio un siffatto uso deviante della informazione di garanzia che, introdotta a tutela dell’indagato, potrebbe finire con il trasformarsi, come, di fatto, è talvolta avvenuto, in un micidiale strumento di lotta politica. In questi casi la tecnica è ormai collaudata. In violazione del segreto istruttorio si fa pervenire la notizia dell’invio della informazione di garanzia (spesso prima ancora che l’abbia ricevuta il destinatario) agli organi di stampa che provvedono ad amplificarla trasformandola così in una vera e propria sentenza di condanna che, come tale, viene recepita dalla opinione pubblica e ciò in spregio del principio di presunzione di innocenza secondo cui nessuno può essere considerato colpevole se non in presenza di una sentenza divenuta definitiva. Se poi “l’informato “è un uomo politico (sia esso un amministratore locale, un esponente del governo, o persona che ricopre una più alta carica istituzionale) e che in conseguenza del battage giornalistico sarà inevitabilmente costretto a dimettersi, il risultato della di lui delegittimazione politica sarà stato raggiunto. A nulla poi rileverà il fatto che quell’uomo politico, dopo qualche tempo sarà scagionato da ogni accusa; ciò che conta sarà il risultato politico conseguito in favore di questa o di quell’area politica a favore della quale il magistrato inquirente potrebbe avere agito, magari in un momento politico particolarmente delicato.
Non vi è chi non veda come tutto ciò, ove si verifichi, costituisca una gravissima violazione non soltanto delle regole processuali ma anche del principio della separazione dei poteri sancito dal nostro ordinamento.
Di recente poi si è assistito a un’invasione delle prerogative del potere legislativo e ciò mediante l’esercizio di fatto del potere di iniziativa legislativa. Si pensi alle .polemiche determinate, anni or sono, dalla formulazione, da parte dei magistrati del pool Mani pulite e da alcuni giuristi e avvocati, delle “Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento” polemiche che hanno dato luogo a varie prese di posizione sia a favore sia critiche nei confronti dell’iniziativa dei giudici di Milano considerata da alcuni perfettamente legittima e da altri in contrasto con la nostra Costituzione potendosi ravvisare nella stessa un’invasione delle prerogative del potere legislativo. Su una di tali prese di posizione vorrei particolarmente soffermarmi e in particolare su quella di chi, pur ammettendo che possa esservi stata da parte dei magistrati una violazione dei confini posti dalla Costituzione alla autonomia del Parlamento, tuttavia tale violazione, in una situazione quale quella attuale, sostanzialmente giustifica e anzi auspica dato che in tal modo le nuove regole potrebbero più rapidamente affermarsi. Una siffatta opinione, a mio avviso, non è condivisibile dato che comporterebbe il rischio di gravi e pericolose deviazioni dai meccanismi e dai principi posti a tutela di un corretto rapporto tra le istituzioni. Come è noto, nel nostro ordinamento il potere di iniziativa legislativa, è attribuito a organi tassativamente individuati (Governo, singoli membri del Parlamento, Consiglio Nazionale della economia e del lavoro, corpo elettorale).In nessun caso è attribuibile al potere giudiziario (cui spetta soltanto l’applicazione della legge ai casi concreti) l’attività creativa delle leggi o l’iniziativa relativa alla formulazione o presentazione di disegni di legge. L’inosservanza di tali principi, sanciti dalla Costituzione, comporta il rischio concreto che al governo delle leggi si sostituisca il governo dei giudici che invece devono essere soggetti alla legge e soltanto a questa Nessun dubbio sul diritto, peraltro costituzionalmente sancito, di tutti i cittadini, e quindi anche dei magistrati, di manifestare il proprio pensiero, soprattutto su temi sui quali questi ultimi hanno particolare competenza. Certo è però che qualche legittima perplessità ha suscitato la forma e il modo con cui l’iniziativa dei giudici di Milano si manifestò, forma e modo che potrebbero indurre a ritenere che, di fatto, sia stato esercitato un vero e proprio potere di iniziativa legislativa con il conseguente sconfinamento dalla sfera dei poteri loro attribuiti dalla Costituzione.
Nessuno evidentemente mette in dubbio che il magistrato, al di fuori delle proprie funzioni e in quanto privato cittadino, possa e necessariamente debba essere portatore di determinate convinzioni e ideologie, non fosse altro che per il fatto che con l’esercizio del diritto di voto contribuisce alla formazione degli organi elettivi dello Stato. Del pari indubitabile è però che nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali lo stesso non soltanto deve essere imparziale e indipendente ma deve anche apparire tale. Il giudice che usi della giurisdizione, in particolare quella penale, strumentalmente, per favorire l’una o l’altra parte politica, l’una o l’altra classe, che faccia suo il progetto politico di una determinata parte o peggio ancora svolga un’azione di appoggio a favore di una delle parti impegnate in uno scontro politico per la determinazione dell’indirizzo di governo, non svolge più un’attività giurisdizionale ma un’attività sostanzialmente politica usurpando quindi, in violazione del principio della separazione dei poteri una funzione che non gli compete. In tali casi non soltanto non ci troviamo in presenza della giustizia ma, a mio avviso, nemmeno più in presenza di un giudice.
Quanto più il giudice starà lontano dalla politica tanto più sarà credibile e minore sarà il rischio che il cittadino che si trovi a essere giudicato da un magistrato di cui sia nota l’ideologia politica diversa dalla sua, sia indotto e ritenere che la decisione a lui contraria possa essere dettata non da ragioni di diritto ma di fede politica. Tutto ciò naturalmente non esclude che la magistratura possa e anzi debba, attraverso i propri organi rappresentativi, svolgere anche attività politica intesa questa nel senso ampio e generale del termine Così non vi è dubbio che svolge attività politica il Consiglio Superiore della Magistratura ogni qualvolta rappresenti agli altri organi dello Stato le esigenze dell’ordine giudiziario o fornisca il proprio parere in ordine ai progetti di legge delle Camere così come attività politica svolgono le associazioni di categoria dei magistrati ogni qualvolta la loro azione sia diretta a porre all’attenzione del potere legislativo o dell’esecutivo problemi attinenti alla amministrazione della giustizia, Nelle ipotesi
suddette ci si trova in presenza di una “attività politica “perfettamente legittima e anzi auspicabile nell’interesse del buon funzionamento della giustizia purchè la stessa non trasmodi in arbitrari interventi nei contrasti e nelle lotte tra diverse formazioni politiche o in attività di sostegno a questa o a quella parte politica dato che in tal caso ci si troverebbe ancora una volta in presenza di uno sconfinamento e di una palese violazione del principio della separazione dei poteri. D’altra parte va ricordato che lo statuto della Associazione nazionale magistrati, dopo avere elencato gli scopi sociali, afferma che l’associazione non ha carattere politico, espressione alla quale non può attribuirsi altro significato se non quello che l’Associazione non deve intervenire nelle contese e nelle lotte fra le classi e i partiti o agire a favore di questa o a quell’ideologia politica. Pur non condividendo l’affermazione di coloro che ritengono l’imparzialità del giudice un’utopia e un obiettivo irraggiungibile, certamente deve riconoscersi che essendo il giudice un uomo, con tutti i limiti che derivano dalla sua stessa natura, l’imparzialità è difficile da raggiungere. Ciò non toglie però che l’imparzialità deve essere, in ogni caso, il fine cui tendere, fine il cui conseguimento sarà tanto più difficile quanto più il giudice si lascerà sopraffare dalla passione politica o, sposando l’ideologia di una determinata parte politica a questa finisca con l’ispirare la sua attività giurisdizionale. La stessa Costituzione d’altronde riconosce sostanzialmente l’esigenza che il magistrato si ponga in posizione di imparzialità e di equidistanza rispetto alle lotte politiche quando fa divieto ai magistrati di iscriversi ai partiti politici. Se un magistrato ritiene che determinate leggi approvate dal Parlamento si pongono in contrasto con la propria coscienza, con l’etica o con la giustizia non potrebbe certo disapplicare le leggi o, con mezzi diversi da quelli previsti dall’ordinamento (magari contestando attraverso la televisione o la stampa una determinata legge) fare pressioni sul legislatore perchè la abroghi o la modifichi. Quel magistrato ha soltanto una via: dimettersi dall’ordine giudiziario e intraprendere la propria battaglia da un altro fronte, quello politico, cui potrà accedere attraverso il consenso elettorale. Mai potrebbe utilizzare il potere giurisdizionale per fini diversi da quelli previsti dalla Costituzione.
In definitiva l’apoliticità del magistrato non va certamente intesa come isolamento dal contesto sociale in cui vive e opera, bensì come osservanza da parte dello stesso dei principi di imparzialità, autonomia e indipendenza che postulano il più rigoroso divieto, nell’esercizio della giurisdizione, di ogni partecipazione, sia essa palese o occulta, a qualsivoglia lotta politica tra parti avverse per la conquista del potere.
Oggi si legge sempre più di frequente di giudici che hanno messo sotto accusa l’intero regime, che hanno attuato la cosiddetta “rivoluzione italiana “e ancora di giudici che agiscono forti del consenso popolare. Io credo che i giudici non debbano nè abbattere vecchi regimi nè operare per sostituire a questi nuovi regimi nè tanto meno fare, attraverso lo strumento della giurisdizione “rivoluzioni “, E credo anche che nell’esercizio della loro delicata attività non debbano sentirsi rassicurati o condizionati dal consenso o dal dissenso popolare (peraltro notoriamente fluttuante e imprevedibile) Non è questa la loro funzione, non sono questi i fini per cui il potere giurisdizionale è stato loro conferito le rivoluzioni o i mutamenti dell’assetto politico possono essere attuati soltanto dal corpo elettorale attraverso l’esercizio del diritto di voto.
E tuttavia innegabile che, di fatto, si è verificata e si sta verificando in Italia una vera e propria rivoluzione per via giudiziaria che ha avuto come risultato quello di un risanamento anche sociale ed economico del Paese così come è innegabile che in nome di questa rivoluzione vi è stata e vi è una costante violazione delle regole formali del diritto. Si pensi all’uso distorto della custodia cautelare in carcere o all’avviso di garanzia usato come arma di lotta politica Tutto ciò potrebbe anche trovare giustificazione in quanto legato a questo particolare momento storico. A condizione però che i giudici, nel rispetto dei principi di imparzialità e indipendenza procedano a 360 gradi, senza guardare in faccia nessuno e senza creare zone di immunità in favore di determinate aree politiche. Ma purtroppo così non è stato.
Il giudice, secondo il dettato costituzionale, è soggetto soltanto alla legge e deve quindi porsi in una posizione di assoluta imparzialità riguardo alle contese politiche. In questa equidistanza, da cui discende la sua credibilità, sta in definitiva il limite ma anche la vera forza del giudice. Si tratta di un elementare principio di democrazia la cui violazione, come affermava il Montesquieu, porrebbe in pericolo la stessa libertà dei cittadini. E’ questa una considerazione su cui tutti dovrebbero seriamente meditare.