Dovendo parlare di mafia ed antimafia non si può non andare con la mente al 10 gennaio 1987 allorquando Leonardo Sciascia rilasciò una intervista al Corriere della Sera parlando di professionisti dell’antimafia, intervista che provocò delle dure reazioni nei confronti dello scrittore che l’allora Comitato antimafia arrivò a definire con il nomignolo di “quaquaraqua” con riferimento alla classificazione che, nel romanzo di Sciascia “Il giorno della civetta” un boss mafioso, don Mariano Arena, fa dell’umanità. Eppure deve riconoscersi che Sciascia, alla luce di ciò a cui assistiamo oggi, fu certamente lungimirante se trent’anni dopo assistiamo con sempre maggiore frequenza alla caduta di molti miti dell’antimafia come i casi, per citarne soltanto alcuni, di Silvana Saguto, ex magistrato presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, del Presidente della Camera di commercio Roberto Helg, colto mentre intascava una tangente da 100 mila euro, proprio accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi o ancora come il caso del direttore di Telejato, Pino Maniaci, incriminato per estorsione e da ultimo il caso del presidente di confindustria Sicilia, Antonello Montante, apostolo dell’antimafia, condannato dal Tribunale di Caltanissetta a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione ed altro.E voglio anche ricordare i contrasti interni a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre.
Molti allora furono i critici di Sciascia, basta ricordare tra i più illustri Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Gianpaolo Pansa. Ma Sciascia voleva criticare una antimafia fatta solo di parole, non basata su immagini personali dicendo che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. E non è un caso che alcuni di questi personaggi e in particolare alcuni componenti del suddetto Comitato antimafia, a distanza di anni riconobbero come era stato un errore criticare Sciascia per quelle affermazioni riconoscendo che Sciascia era stato allora lungimirante vedendo ciò che in quel momento storico nessuno poteva vedere.
Io credo che oggi si può parlare di un brand antimafia che spesso viene utilizzato da una antimafia di facciata e non è la prima volta che si scopre, proprio in Sicilia, che alcuni paladini dell’antimafia in realtà sono tutt’altro. E questo è un fatto devastante per la stessa antimafia perché rischia di sporcare un patrimonio comune che deve essere libero da qualsiasi sospetto di strumentalizzazione o peggio di complicità con la stessa organizzazione mafiosa. Oggi vediamo molti personaggi che invece di fare la lotta alla mafia fanno con questo argomento spettacolo, politica, affari. Non si contano più i libri sulla mafia , gli spettacoli anche teatrali, i film, le fiction. Tutto questo crea confusione nei giovani che devono imparare a ragionare con la loro testa e quindi a discernere quella che è la vera lotta alla mafia da una antimafia che spesso agisce per interessi personali o è addirittura collusa con la mafia stessa come è stato dimostrato in tante occasioni passate e recenti.
Il presidente della Commisione antimafia precedente a quella attuale, in una intervista rilasciata all’Espresso, ha affermato che vi è una mafia che usa l’antimafia per prosperare e che vi è una antimafia che dietro l’obiettivo dichiarato di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. Con riferimento poi alla Sicilia ha ancora affermato che in questa regione c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere che cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione e di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è infine una antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva Sciascia.
Per parlare dei casi più recenti basta ricordare ad esempio quello di Rosy Canale, simbolo dell’antimafia calabrese, condannata dai giudici del tribunale di Locri alla pena di 4 anni di reclusione. La Canale, che aveva creato il movimento “ Donne di San Luca” che avrebbe dovuto dare lavoro e speranza alle donne del piccolo centro, notoriamente dominato dalla ndrangheta, in realtà si appropriava di gran parte dei fondi destinati al Movimento, in particolare dei finanziamenti che, per centinaia di migliaia di euro, le venivano inviati dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura di Reggio Calabria e dalla Fondazione “ Enel Cuore”. La Canale, nell’ambito del “Progetto Mafia”, interpretò anche se stessa in uno spettacolo teatrale ( ampiamente pubblicizzato dalla stampa come una storia di coraggio) di cui fu anche autrice, “Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno “; la stessa anticipò lo spettacolo partecipando ad una tavola rotonda “ Donne e mafia” insieme a Nando Dalla Chiesa. Gianni Barbacetto, Ombretta Ingrascì. In quella occasione, ebbe a dichiarare “ Le mie ferite sono la mia spada, raccontano i valori di pulizia ed onestà che voglio trasmettere”. Ed ancora affermava “ (…….) Le donne di San Luca e della Locride con il loro lavoro coraggioso stanno cambiando il destino di una delle zone a più alta penetrazione mafiosa. Sono la Calabria che resiste e non si arrende alla cultura della prevaricazione e dell’odio”. E alla madre, che come risulta dalle intercettazioni, le raccomandava prudenza e moderazione, rispondeva “ me ne fotto”. Certamente la Canale non avrebbe potuto fare quelle affermazioni ed assumere quelle iniziative se non fosse stata consapevole del consenso preventivo della ndrangheta.
Dello stesso parere non sono però i giudici del Tribunale di Locri che nella sentenza scrivono : “ Grazie ad una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate con l’unico scopo di cavalcare l’allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali “ la Canale si accreditava in fretta presso il Ministero della Gioventù, la Presidenza del Consiglio regionale, la Prefettura di Reggio Calabria, la Fondazione “ Enel Cuore” da cui, come si è detto, riceveva cospicui finanziamenti che finivano nelle sue tasche. Forse avrebbe fatto bene a seguire i consigli della madre. Dulcis in fundo. La Canale, in Campidoglio, riceveva il premio Borsellino. Dichiarava in tale circostanza: “ Vorrei che Papa Francesco venisse tra gli ultimi e i dimenticati di San Luca “. Ogni commento è superfluo.
Altro caso emblematico di antimafia di facciata è quello che ha visto coinvolto, il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, paladino della lotta alla mafia ma, secondo quanto emerso dalle indagini della magistratura ed in particolare dalle propalazioni di quattro pentiti, legato ad esponenti mafiosi ai quali venivano elargiti favori ricevendo in cambio protezione dalle estorsioni. Sostengono infatti i PM di Caltanissetta che il Montante sarebbe stato collegato ad appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Serradifalco di cui avrebbe fatto gli interessi. Secondo i PM nisseni, dal 1990 in poi il Montante avrebbe consentito ai boss di “ ottenere l’affidamento di lavori e commesse a loro personale vantaggio, a scapito di altri imprenditori, nonché assunzioni dagli stessi segnalate, ricavandone in cambio il sostegno per il conseguimento di incarichi all’interno di enti e associazioni di categoria” oltre alla “ garanzia dello svolgimento della sua attività imprenditoriale in condizioni di tranquillità”. Eppure Montante, aveva sempre pubblicamente condotto una battaglia per l’affermazione della legalità!.
Non può poi non citarsi il caso del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, arrestato all’atto in cui intascava una busta con 100mila euro in contanti ,frutto di una tangente corrispostagli da un imprenditore al quale aveva assicurato il rinnovo dell’affitto per il suo negozio in aeroporto. Anche Helg, in pubblici convegni cui partecipavano persino parenti di vittime della mafia, si spacciava per un vero e proprio baluardo della legalità e dell’antimafia ed è singolare come nel suo ufficio, dove avvenne l’arresto, facessero bella mostra le targhe di tanti convegni antimafia. La dimostrazione visiva di come l’antimafia si fa mafia.
Duri attacchi poi sono stati mossi dal PM antimafia Catello Maresca nei confronti di Libera, l’associazione fondata da don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie. In una intervista rilasciata al settimanale “Panorama” Maresca getta pesanti ombre sulla gestione di tali beni e sugli interessi che ruotano attorno a siffatta gestione. Dichiara infatti il PM con riferimento a Libera :” Libera è stata una importante associazione antimafia. ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa” Ed ancora “ Se una associazione come Libera diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica(….) e ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi (….)“ Registro ed osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose esse stesse. Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, ucciso nel 1982, lasciò Libera accusando Don Ciotti di scarso controllo sulle attività e di autoritarismo. Don Ciotti ha annunciato querele e vede nelle affermazioni del PM il tentativo di “demolire” Libera “ con le menzogne”. Sentito peraltro in Commissione antimafia ha ammesso che i problemi di trasparenza di alcune cooperative ci sono stati ma sono stati prontamente risolti.
Ma la dimostrazione lampante e documentata di come la mafia si travesta, talvolta da antimafia, ci viene dalle dichiarazioni del collaboratore Francesco Campanella, soggetto ritenuto molto attendibile dai magistrati. Campanella, cresciuto tra i boss della mafia di Villabate ,vicino a politici di diversi partiti, nominato a Villabate e Bagheria consulente da centro destra e centro sinistra, fu lo sponsor di una “ Consulta antimafia” e organizzatore di marce e convegni contro la mafia cui intervennero anche magistrati antimafia e addirittura si fece promotore del conferimento della cittadinanza onoraria al famoso capitano Ultimo. Ma come ha dichiarato, dopo la sua decisione di collaborare, per organizzare queste crociate antimafia, aveva chiesto l’autorizzazione alla mafia. Ha infatti rivelato : “ Mi premurai di chiedere l’autorizzazione a procedere per le iniziative antimafia” ; e quando gli viene chiesto a chi aveva chiesto questa autorizzazione rispose che questa gli era stata data dai “padroni” di Villabate e cioè Nino e Nicola Mandalà, padre e figlio. E appena il caso di rilevare che trattasi di soggetti che erano vicini a Bernardo Provenzano per cui è facile intuire da chi, di fatto, venne il permesso, non essendo ipotizzabile che si sia trattato di una loro iniziativa. Ed ancora chiese l’autorizzazione a Mandalà per incaricare il deputato Cristina Matranga del coordinamento della Consulta antimafia. Ha infatti riferito il Campanella; : “ Chiesi al Mandalà l’autorizzazione. Era una cosa un pò inusuale, ma spiegai che serviva per spostare i riflettori da noi. Mi dissero che dovevano riunirsi. Lo fecero…” ; Provenzano ( che lui chiama il Grande Capo) diede il via libera. Ecco quindi l’esempio di una mafia che si fa antimafia. Si può infine ricordare il caso della presidente della associazione antiracket “Salento”, Maria Antonietta Gualtieri, arrestata dalla guardia di Finanza, responsabile di truffa aggravata, peculato, e frode nella percezione di fondi pubblici destinati alle vittime del racket e dell’usura. Ammonterebbe ad oltre due milioni di euro la somma che sarebbe stata indebitamente percepita dal 2012. Questa somma di due milioni era stata assegnata all’associazione antiracket di cui la Gualtieri era presidente, dall’ufficio del Commissario straordinario antiracket istituito presso il Ministero dell’Interno. Eppure la Gualtieri è quella che intervenendo nell’aprile del 2013 in un convegno dell’antiracket Salento a Brindisi dichiarò : “ In un momento particolarmente grave come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo mettendo radici. Anche in questo caso ogni commento è superfluo.
Per quanto fin qui detto, pur non dovendosi generalizzare, emerge un quadro desolante che ci induce a considerare che una cosa è la lotta alla mafia altra cosa è una certa antimafia di facciata. Oggi vi è una rincorsa ad attribuirsi patenti di antimafia che spesso servono per il perseguimento di interessi propri, di interessi politici, per carriere, per crearsi improbabili alibi nel caso in cui si dovesse essere raggiunti da sospetti di mafiosità o di contiguità con esponenti mafiosi e ciò in spregio del sangue versato da magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, politici, giornalisti che la lotta alla mafia l’hanno fatta veramente.
Bisogna quindi essere vigili e consapevoli che accanto ad una antimafia autentica ve ne è una falsa costituita da personaggi e associazioni che, pur mantenendo rapporti, talvolta anche organici, con esponenti mafiosi, poi aderiscono a movimenti o associazioni antimafia o che addirittura queste associazioni costituiscono. Si è visto il caso di Campanella che, con il beneplacito della mafia, aveva costituito una “ Consulta antimafia” e per il cui coordinamento, con l’assenso di Provenzano, aveva proposto un deputato. Ma l’antimafia della mafia è anche una eccezionale strategia adottata proprio dalla mafia per nascondersi e per allontanare da sé le indagini della vera antimafia. Per combattere questa strategia occorre smascherare quelli che il PM Maresca definisce gli “ estremisti “ dell’antimafia.
In altri termini vi è una antimafia che, soprattutto dopo il maxiprocesso e le stragi, è sorta come un fenomeno spontaneo e volontaristico e quella che si ostenta e che, come è stato, detto, “si è fatta impresa” per il perseguimento delle finalità sopra specificate. Questa è una antimafia parolaia, che conduce soltanto in apparenza la lotta al fenomeno mafioso e che purtroppo spesso incontra il consenso dei cittadini che difficilmente sono in grado di comprendere che ci si trova in presenza di una antimafia di facciata che serve solo a scalare posizioni sociali, a fare carriera e ad ottenere consenso.
I magistrati dello storico pool antimafia, ( di cui chi scrive fece parte) negli anni 80, in cui si costruì il maxiprocesso riuscendo a portare alla sbarra oltre 800 mafiosi, fecero una antimafia seria. Lavorammo giorno e notte, in silenzio, effettuando, in maniera quasi ossessiva, migliaia di riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e i risultati ci diedero ragione.
Io credo che l’antimafia seria è quella che lavora in silenzio, senza andare sui giornali, senza andare ai convegni dei partiti per fare professione di antimafia, quella che fa in silenzio il proprio lavoro e consegue i risultati. Poi c’è l’antimafia delle parole, impegnata a promuovere convegni organizzati o sponsorizzati magari da soggetti vicini o collusi con la mafia. E’ questa l’antimafia che si nasconde nell’opposto e che bisogna imparare ad individuare e smascherare.