La 16^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online”, continua con il settimo capitolo del romanzo “Silenzi’ d’amore” di Caterina Guttadauro La Brasca.
VII Capitolo
Chiesi dove fosse il suo camerino e l’aspettai là. Mentre aspettavo, mi ricordai di un’altra attesa. Pensai che, nella vita, tante scene si ripetono invertendo le comparse ma il dolore che le accompagna è lo stesso.
Quei posti erano stati, fino ad allora, solo nel mio immaginario, alimentato da discorsi e giornali quando balzavano agli onori della cronaca per la violenza di certi episodi che li vedevano protagonisti.
Cosa li animava? Sete di guadagno, voglia di fama? Nel caso di mia nipote era sicuramente spirito di rivalsa, voglia di dimostrare a tutti di essere in grado di esistere anche da sola, perché lei anche in mezzo a noi si sentiva sola.
Il rumore degli applausi si alternava alle risatine e agli apprezzamenti pesanti che mi facevano sentire fuori posto e offendevano la mia femminilità. Era trascorsa qualche ora anche se mi sembrava un secolo e sentii un squillo di voci e risate nel corridoio, si aprì la porta e su quell’uscio il tempo si fermò.
Ci guardammo con meraviglia ma non aprii bocca finché lei mi chiese: «Cosa ci fai qui?».
Le risposi: «Te lo dirò dopo aver risposto alla stessa domanda».
Allora aggiunse: «Io qui lavoro, mi guadagno da vivere».
«Ah sì, regalando il tuo corpo al migliore offerente, svendendo la Dolores che io e Anna abbiamo protetto da tutti; questo per te è un lavoro? E cosa farai quando il tuo corpo cambierà, quali ricordi vivrai quando avrai la mia età?” Risposi con la voce tremolante.
La osservai attentamente. Poteva ingannare qualsiasi persona ma non me, la conoscevo meglio di chiunque altro, compresa sé stessa.
L’imbarazzo la portava a tentare di coprirsi, cominciò a struccarsi con gesti nervosi e fingeva di compiacersi di quello che lo specchio rifletteva, ma la commozione la rendeva incerta e, con un barlume di tracotanza, riuscì a dire: «Io non penso mai al domani o a ieri, vivo solo l’oggi»
Le risposi: «Non sai quel che dici. Noi siamo il nostro passato, queste tue parole appena pronunciate sono già passato e saranno le tue, le mie memorie, il futuro lo puoi scegliere a partire da questo istante».
Quella notte era necessario svelare tanti misteri, il giorno che stava per nascere avrebbe trovato cambiate persone e cose. Cominciai a parlare sperando fosse l’ultima volta, perché gli anni mi avevano reso più debole e contenere le emozioni mi costava molta fatica.
Continuai: «La verità che ti sto per dire non ha fatto soffrire solo te, ma è stato un sasso nel mio cuore e in quello di tua madre; vedi Dolly talvolta si è costretti a fare delle scelte dolorose per evitarne altre che potrebbero essere letali. Mi sono illusa che l’affetto di tutti noi sarebbe bastato a non farti sentire la mancanza di una famiglia tua, ho taciuto rispettando anche il volere di tua madre.
Oggi non lo rifarei perché le cose non dette rimangono dietro la porta del nostro cuore e continuano a bussare aspettando che si apra. Passano i giorni, i mesi, gli anni e fingi di non sentire, finché qualcuno ti dice una mezza verità e pensi che sia quella giusta.
Tu sei stata una bimba molto amata fin da quando sei venuta al mondo e io c’ero. Hai avuto l’amore di zia Tiziana, il mio e soprattutto quello immenso di tua madre che ha vissuto solo per te.
Non l’hai mai perduta perché non ti ha mai lasciato, è sempre stata accanto a te crescendoti e avrebbe voluto gridare al mondo che eri sua figlia, tanto era orgogliosa di averti. Ma le sue grida non avrebbe potuto sentirle nessuno perché lei non può parlare e ha scelto di non dire la verità perché non avrebbe potuto sentire i commenti, le cattiverie e difenderti da tutto questo.
Aveva anche paura di dirti la verità perché pensava di perderti se tu ti fossi vergognata di avere una mamma immersa in un mondo senza voci e senza suoni.
Oltre alla sua ‘diversità’ tu eri ‘figlia della colpa’ perché tuo padre, brillando di coraggio, l’ha lasciata sola ad affrontare le conseguenze di un gesto d’amore, almeno per quanto riguarda mia sorella. Ho creduto bene, ma oggi non ne sono più tanto sicura di doverla aiutare, proteggerla e non coinvolgere il resto della famiglia in una storia che sicuramente avrebbe scatenato reazioni incontrollabili. Non puoi capire, ma venti anni fa c’era molto cammino da fare per poter giustificare moralmente un gesto di debolezza dovuto a un nobile sentimento quale l’amore.
Prova a immaginare cosa può significare per una madre non poter raccontare una favola alla propria figlia, non poterle cantare una ninna nanna, aiutarla a leggere, ascoltare con lei un brano di musica. Mi ha confidato certe volte, quando eri piccola e stavi poco bene di non addormentarsi, trascorreva la notte seduta, guardandoti, per paura di non poterti aiutare se avessi pianto o chiesto aiuto.
Tu hai capito di chi sto parlando; la risposta era nelle sue lacrime?
Io sono sempre stata al suo fianco per renderle la vita meno complicata e proteggerla dalla cattiveria e dal pettegolezzo. Dire a tutti la verità subito avrebbe scatenato odi e rancori, avrebbero potuto finire in tragedia, ma ti posso giurare che era sua intenzione dirti la verità se tu gliene avessi dato il tempo.
Io e Anna abbiamo forse commesso un errore. Non ti abbiamo rivelato tutto per evitarti di soffrire e tu hai negato e tradito la tua giovinezza, l’affetto di tutti noi e soprattutto, l’amore di tua madre. Per lei il tempo si è fermato quel giorno che, senza curarti di nulla e di nessuno, sei sparita dalla sua vita.
Si, perché Anna è tua madre e dentro di te lo hai sempre saputo, quando ti rivolgevi a lei per un bisogno o per una carezza. Lei è sempre stata al tuo fianco, ti ha sempre voluta dal primo tuo istante di vita, nessuno l’avrebbe biasimata se avesse deciso di non farti nascere. Lei non è scappata come ha fatto qualcun altro, è rimasta al suo posto e per non farti ferire ha vissuto la sua vita lontano da tutti, vedendo sfiorire la sua giovinezza giorno dopo giorno ma era compensata dal vedere crescere te bella e sana.
Adesso, mentre tu qui neghi tutto quello in cui lei ha creduto, io la vedo consumarsi e ho paura decida di gettare la spugna.
Lei che si è arresa al silenzio, all’abbandono e alla solitudine, si sta arrendendo al fallimento dinanzi al quale l’hai messa con la tua fuga. Non sa che io sono qui e non le ho detto cosa stai facendo perché l’avrei fatta morire di crepacuore.
Tu adesso sai, scegli con chi vivere e cosa fare ma, ti prego, non lasciarla morire col peso sul cuore di averti perduto per colpa sua. Riconosci il suo ruolo, dalle un’identità, non farle credere di non essere nessuno. Ah! Per dovere di cronaca, hai anche un padre ma non è compito mio parlartene». Dolly non era sorpresa e la sua risposta me lo confermò.
«Lo so – disse ‒ forse ho già conosciuto mio padre, proprio qui, una sera mentre con degli amici in cerca di emozioni. Mi avvicinai al suo tavolo e uno dei suoi amici allungò le mani, dandomi fastidio.
Senza una spiegazione logica, mi afferrò per un braccio e proteggendomi con il suo corpo, sfidò il suo amico, dicendogli che se avesse osato ancora toccarmi avrebbero regolato i conti fuori. Dopo mi guardò attentamente chiedendomi quanti anni avessi. Lo guardavo negli occhi e mi sembrava di riflettermi in uno specchio, c’era qualcosa che mi spingeva a fidarmi di lui, lo ringraziai e continuai il mio numero.
La notte all’uscita dal locale era lì e mi chiese se poteva accompagnarmi. Non sapevo cosa rispondere, poi pensai che di notte non essere soli per strada poteva servire.
Lungo la strada deserta le parole divennero pesanti tanto da coprire il rumore dei nostri passi. Mi raccontò la sua storia. Era un debole perché aveva subito il volere di sua madre e, successivamente di sua moglie, diventata tale non per sua scelta. Solo una volta era riuscito a seguire la sua volontà e il suo sentimento per una ragazza.
La sua bellezza e i suoi sentimenti annientarono le resistenze e visse quella che sarebbe rimasta l’ora più bella della sua vita. Dopo, c’era stato un seguito a tutto questo, ma non lo aveva potuto rivendicare perché non avrebbero creduto alla sincerità dei suoi sentimenti. Lo avrebbero accusato di leggerezza e di non aver usato rispetto per una famiglia che lo riteneva un vero amico.
Mi chiese la mia data di nascita e mi rispose che sua figlia avrebbe avuto la mia età. Mi guardava gli occhi e i capelli dicendomi che gli ricordavo qualcuno, e, quella sera vedendomi importunata mi aveva difeso istintivamente, senza pensare.
Mi sentivo accarezzata dal suo sguardo come un ninnolo prezioso, sentivo la sua sincerità fare eco nel mio cuore. Alzai con la mia la sua mano stanca e, lentamente, la portai al mio viso: era fredda, sembrava quasi senza vita. Forse quel mio gesto gli scaldò il cuore e parlò»: «Il silenzio scrive pezzi della nostra vita con parole trasparenti, con gesti che, mediati dalle parole, perderebbero d’intensità. Io ho fatto l’amore con Anna, ho solo dato quello che lei mi ha chiesto e preso quello che lei ha voluto donarmi.
Non ho approfittato di lei, quel rapporto era già stato consumato con gli sguardi, i sorrisi, i baci rubati all’attenzione di tutti. C’è stato un momento in cui, nonostante la voglia, volevo fermarmi ma lei, con un gesto quasi violento, mi attirò a sé e mentre esploravo il suo corpo, mi incoraggiava quasi ad andare avanti con il suo sguardo mai dimenticato: piovevano stelle nei suoi occhi e lì sono annegato». Aveva un tono molto amaro, la sua voglia di vivere si riduceva sempre più.
Lo presi sotto braccio e continuammo la salita mentre un gatto randagio andava a spasso con la sua ombra. Mi lasciò sotto casa dicendomi di riflettere sul valore della vita, la giovane età mi permetteva ancora di chiudere con quel lavoro, di studiare, lavorare, insomma impiegare il mio tempo seguendo una strada più giusta per non perdere la stima di me stessa perché, passando gli anni, il peso di una colpa aumenta fino ad annientarti.
Era rimasto solo, non aveva avuto figli ma aveva vanificato tutta la sua vita mentre avrebbe potuto essere un marito e un padre felice. Mi fece una gran pena, accennai a una carezza su quel viso stanco e la mia mano si bagnò. Avevo sempre sentito dire che un vero uomo non piange eppure io stavo dandogli un fazzoletto, lui lo prese e, passando un braccio attorno alle spalle, avvicinò il suo viso al mio in un contatto che mi emozionò tanto, quindi mise il mio fazzoletto in tasca e andò per una strada diversa dalla mia…
Lo guardai e gli chiesi: “Voltati, voltati se sei chi credo!”. Lo fece e quello fu il mio riscatto.
Quella notte, forse è più giusto dire mattina, i miei occhi stentarono a chiudersi e mi chiesi perché gli uomini fuggono dai grandi amori. Hanno paura di un sentimento definitivo e preferiscono consumare le loro notti tra finzioni e giovinezze perdute.
La vita non si può consumare vendendo la compagnia, regalando gesti e parole non vere, dando una finta felicità la quale, a compenso incassato, lascia solitudine e sporcizia dentro di noi. Se lui è la persona da me creduta, non conoscerlo mi ha portato in questo locale, incontrarlo mi ha fatto capire che non sono i successi a farci crescere ma i fallimenti».
Quelle parole mi fecero capire come un fiore può nascere anche dal fango. In quel posto forse lavoravano ragazze che, come Dolly, si sentivano dimenticate, avevano dei figli da crescere senza alcun aiuto ma il gesto di uno sconosciuto avrebbe potuto redimere e riportare a una vita possibile. Il destino aveva condotto Giovanni da lei, assumendosi quella responsabilità di cui nessuno di noi aveva voluto farsi carico.
Baciai quelle guance rigate di lacrime e me ne andai, convinta di aver perso Dolly e, forse, di aver ritrovato Dolores.
Le mie parole l’avevano messa dinanzi a una realtà più grande di lei e sapevo cosa sarebbe successo. La mia mente stanca di pensare si abbandonò a immagini che sintetizzavano il significato di quanto appena accaduto.
Rividi le strade del mio paese nei giorni ventosi quando, trattenendo il vestito, opponevamo resistenza al vento. Ci spingeva in senso contrario, scansando gli ostacoli che, talvolta pericolosamente, ci trovavamo dinanzi; in quel momento, era importante affrontare l’ostacolo, non abbandonarsi alla paura.
Poi, quando il vento cessava, rimanevano i mucchietti di polvere, i calcinacci, qualche tegola caduta ma comunque niente da non poter essere eliminato da una bella pulita. Mi era rimasta addosso una gran voglia di verità, ad un tratto mi pesava non averla detta prima anche agli altri, a mia madre, a Emma, a mio marito, avevo mentito a tutti pensando non ci fosse alternativa, invece la menzogna detta per evitare il dolore genera altro dolore.
Era quasi mattina, la notte, come accadeva da millenni, stava perdendo la coltre scura che vegliava il sonno dei giusti, alleggeriva il peso dei rimorsi, cullava le fantasie degli amanti. Era un’alba di redenzione quella che stava per nascere e mio marito, avendo capito più di quello che lasciava trasparire, interpretando misteriosamente una mia esigenza, mi chiese se volevo fermarmi a salutare mia madre. Il mio silenzio rese scontata la risposta.
Ogni tanto, come facevo con mia sorella, sentivo il bisogno di andare da mia madre o meglio di pormi dinanzi a quella lapide fredda. Conteneva solo miseri resti umani, io avevo voglia di parlarle, raccontarle cose che, in vita, non le avevo mai detto, scusarmi per averla sicuramente trascurata, chiederle perdono per essermi sostituita a lei nell’aiutare Anna.
Ora comprendevo il bisogno di essere madri per capire il significato di questa immensa parola. Se avesse saputo, avrebbe capito e aiutato quella figlia che non le aveva mai fatto una colpa per averla messa al mondo.
Vigliaccamente le chiesi aiuto, la pregai di intercedere perché tutti trovassimo pace, la nostra famiglia, pur nelle difficoltà, non smarrisse la sua identità e l’unione che lei ci aveva sempre insegnato a salvaguardare. Se c’era un modo per aiutarmi lo avrebbe fatto e sollevata passai a salutare Emma, ignara di tutto.
Egoisticamente avevo trascurato le ansie in cui si dibatteva Filippo e quindi non conoscevo l’evoluzione della malattia; sarebbe stata la prima cosa da chiedere a Emma. Vedendoci, si stupì dell’orario.
Non era, infatti, nostra abitudine viaggiare all’alba. La tranquillizzai raccontandole la verità fino ad allora nascosta. Parlai tanto e cercando di dire esattamente ciò che volevo, senza tentare di giustificare il mio lungo silenzio, la mia presunzione nel pensare di saper gestire sentimenti, emozioni, paure che forse sarebbe stato più giusto condividere.
Emma, vedendo la mia fatica a contenere le lacrime, mi abbracciò e, con mio grande stupore, cercò di soffocare i sensi di colpa emerse dalle mie parole. Non era arrabbiata, solo stupita per tutte le difficoltà affrontate, per avere in tutto quel tempo considerato un amico l’uomo che aveva tradito la nostra stima, colpendoci nella persona a tutti noi più cara.
Il suo pensiero andò ad Anna, al suo amore senza voce, al senso di inutilità che, in tanti momenti della sua esistenza, doveva aver provato. Adesso aveva perso il motivo per cui si era trascinata quella vita come un prigioniero si trascina la catena e si stava lasciando andare.
Quindi Dolly era anche sua nipote, quell’angelo una parente lontana era figlia di sua sorella. C’erano troppe realtà apprese tutte in un momento, c’era una nipote da salvare, due sorelle da rincuorare e un figlio da aiutare. Per la prima volta Emma si sentì vecchia ma aspettò di essere da sola per dirselo.
C’era un tempo per ogni cosa e adesso era tempo di abbracciare Mariù, la sua sorella dal grande cuore. Si era fatta carico di un così grande problema per evitare a tutti, ai loro genitori e ai loro fratelli di vendicare con un lutto l’errore di un amico.
«Dalle scale – riprese mia madre − si sentì la voce di mio cognato Lorenzo; con mio marito, avevano fatto il caffè e ci chiamavano per berlo insieme.
Era ormai giorno. Uscii sul marciapiede per salutare questa nuova giornata con un grosso sospiro e quando espirai, come un palloncino, sentii sgonfiarsi la rabbia, la paura e il rimorso che mi avevano accompagnato in quella notte di passione».
Ora Mariù non era più da sola, poteva contare sull’appoggio di sua sorella e suo cognato, e, mentre beveva il primo sorso di caffè, le sembrò di mandar giù tutto il passato e di ritornare a essere libera e leggera come da tanto tempo non era più stata.
Guardò con tenerezza anche quei due uomini rimasti lì, rispettosi del loro bisogno di solitudine, consapevoli della loro esigenza di raccontarsi e sentì che talvolta l’amore è anche gratitudine.
Come fosse il seguito di una storia già conosciuta, Emma disse di venire con noi per essere tutte insieme a sostenere Anna e, nel contempo, esserlo anche lei per l’incognita dell’ultimo responso che Filippo avrebbe avuto dal Prof. Cameron».
«Sarebbe tornato a suonare – disse Emma – o da protagonista sarebbe diventato uno spettatore di riguardo?». Stavolta l’avrebbe accompagnato Françoise, di lì a qualche mese, sarebbe diventata la signora Piovani.
Nessuno più di lei avrebbe potuto dargli coraggio per affrontare quel difficile momento. Credo di non aver mai pregato come in quei giorni: si ruppero gli argini di tutto ciò che mi era stato insegnato in forma codificata e instaurai con Dio un rapporto diretto parlandogli come a un amico».
Il tempo cominciava a essere meno freddo, le giornate un po’ più lunghe e sui rami degli alberi spuntavano, timide, le prime gemme. La natura si stava risvegliando dal letargo invernale, tutto rinasceva: come poteva conciliarsi con questo risveglio una brutta notizia?
La vita, però, è un libro di cui conosci le pagine già lette e non sai mai, se sfogliando la prossima, l’incantesimo si spegne. Questo timore, confessato solo a me stessa prese corpo in una telefonata, nel corso della quale fummo informati su una verità ormai acclarata: mio nipote avrebbe potuto suonare piccoli pezzi. I risultati ottenuti non gli avrebbero più consentito di sostenere la fatica e la durata di un concerto: in breve, la sua carriera era arrivata al capolinea.
La presenza di Françoise, in quel difficile momento, era la medicina necessaria a fargli affrontare questo dolore senza cadere nella disperazione. La reazione immediata di mio nipote alla diagnosi temuta fu di chiusura. Un lavoro che ami da sempre non puoi farlo a metà e, anche tecnicamente, non era possibile ridurre un concerto a piccoli pezzi.
La speranza lo aveva sostenuto, facendogli sopravalutare i piccoli miglioramenti. Le cure, in altri casi, risolutive per lui avevano contenuto i danni ma non gli potevano restituire il suo mondo di armonia e di successi.
In sintonia con lui erano tanti cuori, quelli di tutti noi che lo amavamo e sapevamo quanto strenuamente avesse difeso il suo sogno.
Tante cene e tanti pranzi videro Nannina riportare in cucina i piatti intatti, finché Françoise non riuscì a toccare le corde giuste. Non lo lasciò solo neppure per un momento, la musica non era bandita dal suo mondo, avrebbe potuto comporre, avrebbe potuto insegnare e regalare nuovi talenti al mondo che entrambi amavano tanto.
Ognuno elaborò a suo modo questo dolore. Provvidenziali furono i preparativi per il matrimonio, l’essere coinvolto in ogni piccola cosa per decidere Delegammo a lui anche incombenze di Françoise per occupare tutte le sue giornate, mentre Nannina impazziva perché non si dava pace per la nostra latitanza in tante cose da fare.
Su una cosa furono entrambi della stessa opinione: non volevano una cerimonia imponente, con un gran numero di invitati e per non dover dare spiegazioni scelsero di sposarsi nella nostra chiesa di paese. Quella decisione ci commosse e capimmo il loro desiderio di semplicità e di intimità. Ci apprestavamo a vivere un deja-vu, con attori diversi ma con la stessa emozione, ci saremmo spesi totalmente perché quel giorno fosse indimenticabile per tutti.
Per fortuna, c’era sempre una compensazione nella vita: la notizia del matrimonio bilanciava l’amarezza di Filippo per non poter più praticare la musica. Cercammo di mettere a tacere voci e pensieri dentro di noi e ci facemmo trascinare da questo piacevole vortice che era un evento di tutta la famiglia.
Anna non lasciava trasparire le sue emotività ma cominciò a confezionare all’uncinetto le bomboniere, certamente sarebbero state piccoli oggetti di rara maestria e cura.
Vivevamo tutti un’aria di attesa. Sarebbero venuti Filippo, Françoise, i suoi genitori, Nannina che non si era mai mossa in vita sua e tanti amici che conoscevamo da sempre. Si doveva preparare un grande evento anche per il paese. All’appello mancava ancora qualcuno e io pregavo perché Anna in quel giorno, che a lei era stato negato, non si sentisse sola ma potesse avere accanto sua figlia.
Talvolta la vedevo sull’uscio di casa, guardare tutta la strada, togliersi gli occhiali e pulirli come a voler vedere più lontano, a non farsi sfuggire un particolare di qualcosa che da un momento all’altro poteva accadere.
Un pomeriggio, mentre stavamo scegliendo con mia sorella i colori del filo per legare le bomboniere, vidi che tu, dall’uscio di casa, ti precipitasti in strada con esclamazioni di gioia; mi alzai per vedere meglio e per poco credetti di non reggere alla commozione di vedere te e Dolly, abbracciate, venire verso casa.
In quel momento la mia paura più grande era che Anna non reggesse all’emotività di rivederla.
Mi avvicinai a mia sorella e, con fare protettivo, le misi un braccio attorno alle spalle, le tolsi dalle mani una ciotola che sarebbe sicuramente andata in pezzi e, ancora una volta, aspettai insieme a lei. Io aspettavo con mia sorella e tu arrivavi con tua cugina: in quell’immagine vidi il passaggio del testimone a voi che eravate il prolungamento della nostra vita. Girai dolcemente Anna e la misi con il viso rivolto verso la porta dove, dopo qualche minuto, appariste voi.
Madre e figlia si guardarono, la prima cosa che condivisero fu un pianto irrefrenabile quando Dolores pronunciò la parola: “Mamma. “Rimasi allibita quando Anna, accogliendola tra le sue braccia, pronunciò per la prima volta il nome di sua figlia che, sicuramente le era costato anni di esercizio di fronte a uno specchio, a sillabare come una bambina.
Era un momento in cui si sanavano amori e dolori, gioie e disperazioni tenute in sospeso dalla paura, dalla mancanza di coraggio; quelle lacrime rendevano giustizia alle offese, ridavano identità a chi in quella storia aveva sempre creduto.
Tutto tornava, anche l’aver voluto, da parte di Anna, mettere al mondo il frutto di un amore infelice e, da parte mia, averlo sempre protetto dalla cattiveria, dandole supporto e affetto. Guardavo quella giovane donna, semplice ed elegante, nulla aveva da spartire con la ragazza pesantemente truccata e discinta che avevo incontrato una notte di qualche mese prima.
Aveva un vestitino leggero e leggermente rigonfio all’altezza della pancia. Mi colse un senso di vertigine: sicuramente la suggestione e i ricordi mi giocavano un brutto scherzo.
I giorni immediatamente successivi furono attraversati da fiumi di parole, tentativi di spiegazioni ormai ininfluenti, scuse accennate per non mortificare l’orgoglio; si doveva dare fondo a tutto ciò che era rimasto taciuto per poter ricominciare a guardare al futuro.
Il miglior futuro è quello costruito sul passato dimenticato. M’intenerì l’abbraccio tra Dolly e tuo padre che l’aveva sempre amata, curata e protetta senza mai chiedere spiegazioni a nessuno di noi. Fui orgogliosa di essere sua moglie perché il suo rispetto per tutti i componenti della famiglia era stato una costante nella nostra vita, e questo era sicuramente una conferma del suo amore per me.
Tu fosti la persona con meno problemi nel rapportarti a tua cugina, ricominciaste proprio là da dove vi eravate divise, mano nella mano a raccontarvi sottovoce sogni mai dimenticati.
Te l’ho mai detto, Lisa: tu eri la mia forza, eri in ogni momento la conferma di una maternità voluta».
Finalmente provai la gioia di sentirmi dichiarare l’amore da mia madre e non aveva più senso richiamare parole o gesti accennati, non capiti. Non parlai ma per me lo fecero i miei occhi.
«Commuovevano tutti – riprese mia madre − la tua bontà, il tuo saper tacere se non era il momento giusto di parlare, il tuo rispetto del volere e dei sentimenti degli altri. Da quando Dolly era andata via, non avevi mai chiesto spiegazioni e di dubbi ne avrai avuti.
Quando ti chiedevano se sentivi la sua mancanza rispondevi che niente del vostro affetto si sarebbe perso perché credevi al suo ritorno.
In quel periodo fosti la figlia mia e di Anna verso la quale eri diventata più affettuosa e piena di premure. Sei stata capace di insegnarle a modulare quei suoni gutturali con lunghi ed estenuanti esercizi con lo scopo di poter in un giorno non lontano riuscire a pronunciare qualche parvenza di parola, seppur storpiata. Vi capivate benissimo ed eri riuscita, in silenzio, a coltivare in lei la speranza.
L’accompagnavi a Messa, chiedevi sempre il suo parere, non mi offendevo quando seguivi un suo consiglio e non il mio: capivo perché un grande affetto ti legava a lei e la situazione difficile che stava vivendo richiedevano attenzioni e stimoli. Fosti tu a informare Dolly delle vicissitudini di Filippo, del suo prossimo matrimonio e della vostra partecipazione come damigelle.
A me non sfuggiva la diversità che manifestavano gli sguardi, i gesti: tu eri ancora una giovinetta spensierata, con tanti progetti e tanti sogni, Dolly aveva le movenze di donna consapevole e certi suoi gesti mi richiamavano alla memoria atteggiamenti particolari, vissuti da noi donne solo in particolari momenti. Ma non c’era tempo per porsi domande, ci trasferimmo tutti in casa di Emma e ognuno fu coinvolto nei preparativi, niente doveva essere lasciato al caso.
Ci sentivamo tutte le sere per telefono con Françoise e Filippo per prendere accordi sul da farsi e confrontarci su quello ormai già fatto. Anna dopo aver preparato le bomboniere le confezionò e le compose in una bellissima cesta, rivestita di raso bianco.
Anna metteva tanto amore in quello che faceva; ogni cosa preparata da lei era perfetta, curata nei particolari. Lasciammo, infatti, a lei la preparazione dei vestiti delle damigelle. L’assediavate di domande, di richieste e ogni prova diventava l’occasione per dimostrare quanto foste vanitose, le nostre ormai signorine.
La chiesa già testimone di momenti belli e brutti della nostra famiglia fu addobbata con calle bianche e il bouquet della sposa fu fatto con i fiori di zagara. La calla era anche il tuo fiore preferito, questo calice bianco satinato che si staglia rigido sul suo gambo. Dicevi: «era un fiore elegante e puro».
Dietro suggerimento di Françoise l’unica musica scelta fu l’Ave Maria di Gounod, da accennare in sottofondo al momento del sì e allo scambio degli anelli.
A sua nuora, Emma volle regalare un gioiello di famiglia che mia madre le aveva donato in qualità di figlia maggiore. Era un cuore di piccoli smeraldi. Sembravano chicchi luminosi incastonati nell’oro antico, meno pregiato, ma affettivamente inestimabile. Mia sorella lo aveva conservato con cura perché, essendone in possesso, si sentiva depositaria della storia di una generazione.
Lo aveva indossato in occasioni molto importanti della sua vita, quando, accompagnato alla sua bellezza, l’aveva resa una donna ammirata e speciale. Approvai la sua decisione di regalarlo a sua nuora.
Furono rispettate tutte le tradizioni nel preparare il letto: più donne, parlando allegramente, distesero sul letto le lenzuola della prima notte, con il rimbocco impreziosito da applicazioni ricamate a mano, motivo ripetuto anche nei cuscini.
Parlo di un’epoca in cui un lenzuolo era un arazzo per la preziosità della stoffa, le applicazioni e i ricami che impegnavano donne in anni di lavoro di precisione e di pazienza. Nessuna donna poteva non averne uno; il letto, per l’importanza che rivestiva per il dono di sé, era curato nei particolari, ogni gesto e ogni addobbo aveva un significato tramandato da madre in figlia e, pertanto, codificato.
I materassi e i cuscini rigorosamente di lana avrebbero richiesto tutti i giorni energia e cura nel rifare il letto.
Il copriletto lasciò Françoise letteralmente senza fiato, come del resto capitava anche a me, da una vita, tutte le volte che lo distendevamo sul letto. Era riduttivo chiamarlo copriletto, era uno splendido quadro in parte dipinto, in parte ricamato, un capolavoro. Nei suoi piccoli punti nascondeva l’applicazione attenta e la maestria di tre sorelle che per finirlo avevano impiegato sei anni.
Alcuni particolari facevano onore alle più fini ricamatrici, le mani si districavano sapientemente tra fusilli e fili di prezioso cotone fino a ottenere arabeschi belli come una melodia. Il colpo d’occhio era lo stesso che hai quando guardi un quadro di un grande pittore, il cui stile ti è congeniale.
C’erano miliardi di punti di cui alcuni impercettibili, alternati a ricami in veneziano così perfetti da sembrare un dipinto.
Mettemmo in mezzo ai due cuscini un ramoscello di ulivo per propiziare pace alla coppia. I giorni si allungavano e le notti si accorciavano tanto era il lavoro che piacevolmente ci assorbiva; Filippo e Françoise furono accolti in un abbraccio così grande da annullare ogni timidezza, ogni remora, ma soprattutto, ogni tristezza. Emma fece un resoconto dettagliato alla sua futura nuora di tutto ciò che era già pronto, specificando che se qualcosa non fosse stata di suo gradimento sarebbe stata modificata secondo i suoi gusti. Guardavo quelle due donne e mi auguravo la stessa intesa con chi tu avresti sposato un giorno.
Finalmente, anche Dolores conobbe tutti, e tutti la accolsero con grande affetto, mentre lo sguardo di Anna la seguiva come se l’avesse appena messa al mondo. Nessuno sapeva che l’aveva perduta e poi ritrovata, la sua presenza era l’unica sua ragione di vita.
Gli uomini erano usciti, con un’apparente scusa ma in realtà si celava la loro voglia di stare soli, a festeggiare alla loro maniera quel nipote che, a loro dire, stava perdendo la libertà. Anche a quei tempi c’era la festa di addio al celibato. Era una bevuta tra amici, qualche battuta un po’ allusiva e una partita che avrebbero fatto vincere il futuro sposo. Avrebbero fatto notte e sarebbero rincasati un po’ alticci, ma era comprensibile.
Era tardi, ma Emma volle a tutti i costi condurci in soffitta per cercare la borsina di velluto di mamma. A suo dire, si adattava perfettamente con il cappello e le scarpe che avrebbe indossato.
Mi si chiudevano gli occhi ma l’accontentai. Camminando felpatamente per non svegliare chi già dormiva, ci avventurammo in soffitta alla ricerca, sapendo bene che ogni oggetto trovato era un libro di storia.
Ci ritrovammo tra le mani penne mai usate, ricette di cucina, puntaspilli, pantofole ricamate a mano, mentre una nuvola di polvere si sollevava sotto il nostro naso. Mi girai e vidi Emma intenta a fissare una piccola busta di colore rosa su cui era scritto un solo nome: “A Cesco”.
Non rappresentava nulla per me e mi stupiva l’attenzione che prestava a essa mia sorella. Gliene chiesi la ragione e mi trovai ad ascoltare la storia d’amore più tenera che un uomo potesse vivere».
«So che ti stupisce vedere questo biglietto – mi disse mia sorella ‒ e soprattutto ti stupisce la religiosità con la quale lo guardo e lo tengo tra le mani, ma è prezioso».
In copertina, Carmelo Caracozzo, «…Io sono la resurrezione e la vita…”Dall’acqua io riemergo”», 2017, olio su foglio telato, cm. 40 x 60,5.