Sembra incredibile ma, ancora all’inizio del secolo XIX, le incursioni barbaresche, che avevano tormentato per secoli le coste siciliane compromettendo in maniera pesante lo sviluppo del commercio marittimo dell’Isola, erano ancora argomento di evidente attualità.
Proprio nel maggio del 1803 fu, infatti, diramato l’allarme da parte del Governo su eventuali probabili incursioni saracene nel territorio della Sicilia meridionale. La notizia che mise sull’allerta le autorità borboniche riguardava l’uscita dal porto di Tunisi di “dieci legni armati a guerra” che, a quanto si diceva, puntavano direttamente sulle coste isolane. Che si trattasse di un tentativo di invasione venne immediatamente escluso, ma che si trattasse di un’incursione diretta, come nel passato, a far bottino era convinzione comune.
Fatto sta che, nonostante si fosse provveduto a rafforzare le difese, aggiungendo copiose vettovaglie per approvvigionare le guarnigioni, quel pericolo virtuale divenne pericolo reale visto che ci furono tutta una serie di tentativi di sbarco che si registrarono in varie località della costa agrigentina. I barbareschi, di quella spedizione, misero infatti piede a terra, per la prima volta, alla foce del fiume Naro la notte del 13 luglio 1803. Dovettero, però, reimbarcarsi in fretta e furia per l’immediato arrivo della cavalleria borbonica che li accolse con una fitta grandinata di fucileria.
Il 31 luglio un altro breve sbarco avvenne in un litorale di Palma che, prima che arrivassero i gendarmi, fruttò la cattura di 4 “naturali”, cioè uomini, di quella terra” che sarebbero stati portati a Tunisi per poi chiederne il riscatto. Stessa sorte toccò al giovane Vincenzo Marino, che era stato sorpreso nel corso dello sbarco realizzato nella notte del 31 luglio nella zona San Giorgio a Sciacca; anche lui sarebbe stato condotto in schiavitù nel porto africano. Un’altra incursione riguardò il litorale di Punta Grande, nella cosiddetta Scala dei Turchi. Qui l’8 agosto, i predoni presero terra e si avviarono, approfittando del buio, verso l’abitato di Realmonte. Lungo il cammino si impadronirono di bestiame e di quanto trovarono sulla loro strada. Per fortuna, qualcuno riuscì ad avvertire le difese della cittadina che, non solo, impedirono ai pirati di raggiungere il centro del borgo ma che li costrinsero a reimbarcarsi.
L’attacco più consistente si verificò il 9 settembre fra Palma e Licata, ma i miliziani borbonici, anche questa volta, riuscirono a intercettarli. Seguì un durissimo scontro a fuoco, che durò per ore, e che si concluse allo spuntar dell’alba con la fuga dei predoni verso le imbarcazioni che stazionavano vicino alla spiaggia. Le scorribande continuarono fino ad ottobre quando, con il peggiorare della stagione, la aggressiva flottiglia barbaresca, con il bottino razziato, fra essi una ventina di siciliani ridotti in schiavitù, decise di fare ritorno, senza aver subito danni, nei patri porti.
Sorprende, in tutta questa vicenda, che non vi sia stata un’adeguata reazione della flotta borbonica che, come viene spesso tramandato, sarebbe stata una delle più potenti del Mediterraneo. E’ corretto poi precisare che, se quelle del 1803, furono incursioni rilevanti anche per il prolungarsi del tempo delle scorrerie, esse non costituirono tuttavia le ultime perché, ancora nel 1828 – cioè venticinque anni dopo – il 6 settembre si verificò un’incursione nel territorio di Realmonte dove uno sciabecco barbaresco era approdato alla Scala dei Turchi.
In quell’occasione, i pirati saraceni furono intercettati dai contadini locali che, con coraggio, armati alla “bene e meglio” di forconi, falci e coltellacci li affrontarono ricacciandoli malconci alla loro imbarcazione.