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Romanzi da leggere online: 22° capitolo di “La voglio gassata”

domenica 13 Ottobre 2019

La 39^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il ventiduesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.

CAPITOLO 22°

Non andai, raggiunsi invece Monica e le dissi: «Rasami la testa».

Lei rimase zitta, ma colsi nella sua voce una nota di dispiacere, quando mi disse: «Mai avrei pensato di fare questo a te, sei l’ultima persona alla quale avrei voluto farlo».

Da quel momento io e la parrucca che chiamavo “la mia amica” cominciammo a farci buona compagnia.

Nessuno poteva immaginare quanto fosse grande l’aiuto che mi dava, permettendomi di vivere una vita normale agli occhi di chi mi guardava.

Avevo capito, invece, l’imbarazzo e il dispiacere di Monica e appena tornata a casa la chiamai per dirle: «Monica, stavolta con il taglio hai proprio esagerato!»

Le strappai una risata che riuscì a fare stare meglio entrambe.

Roberto, mio marito, non pensava all’estetica ma si chiedeva se, come donna, sarei riuscita a non crearmi dei problemi vedendomi, ma soprattutto sentendomi diversa dalla persona curata che ero sempre stata.

Io non mi appoggiavo a nessuno, volevo assecondare le mie esigenze che erano quelle di curare il mio aspetto, essere gradevole. Tutte le volte che andavo per la terapia portavo un vassoietto di pizzette, premura che fece dire ad un’infermiera: «Quando vieni tu è come se fosse un giorno di festa.»

Dovevo riconoscere, mio malgrado, che la malattia mi regalava la simpatia, la solidarietà di tanta gente ma capivo che non era pietismo, non avrei mai accettato di essere compatita. Camminavo e vedendo un vecchio accovacciato per terra con accanto un cane, mi ritornarono in mente nitide alcune immagini.

Gli attimi che ti cambiano la vita sono pochi, esattamente come le persone. Molti incontri sono frutto di nostre scelte, altri accadono per caso oppure addirittura ci inciampiamo contro.

Questo episodio mi accadde giorni prima del Natale dell’anno precedente.

Rientra nei compiti di un volontario A.I.L. partecipare alla Campagna Natalizia delle Stelle per reperire fondi.

Di anno in anno, queste occasioni si arricchiscono di nuovi oggetti, talvolta creati appositamente per l’Associazione.

Era mattina ed ero in ritardo, dovevo raggiungere un punto vendita per dare il cambio a due volontari che erano già a fine orario.

Il caffè che avevo bevuto non mi aveva svegliato del tutto e andavo di fretta sotto i Portici di questa città che amo e che si era svegliata da poco.

Bologna con queste sue chicche architettoniche i suoi noti portici, si prende cura dei suoi abitanti e visitatori, offrendo un percorso al riparo da ogni intemperia e dal traffico.

Andavo sovrappensiero e rischiai di cadere perché inciampai contro qualcosa o meglio qualcuno, coperto da giornali e disteso su dei cartoni.

Mi fermai convinta che fosse, un cartone di stracci lasciato incautamente per strada.

Ero indispettita, perché il mio ritardo aumentava ma la curiosità è donna, si sa, mi fermai e guardai attentamente.

C’era un clochard, coperto da un vecchio e rattoppato cappotto, un berretto pieno di buchi a coprirgli il viso mentre dormiva in pace con il mondo.

Due cose mi colpirono: un vecchio paio di scarpe messe una accanto all’altra e vicino, un sacco sicuramente pieno dI tutto ciò che quel vecchio possedeva nella vita.

C’era anche un cane che, dapprima, non avevo notato perché di taglia piccola, ed era completamente avvolto con una coperta ancora in buono stato.

Il vecchio dormiva e il cane vegliava su di lui.

I miei occhi andavano dall’uno all’altro. La povertà, e la miseria che avevo dinanzi sparivano in confronto all’amicizia, al senso di protezione regalato da quelle immagini ai passanti che, frettolosi non si curavano di loro.

Sembrava che là, per terra, ci fossero due figure inanimate in un paesaggio storico di rara bellezza.

Ho sempre amato gli animali e i vecchi: gli animali per la loro fedeltà e i vecchi per la loro fragilità.

Si proteggevano. L’uno bastava all’altro, tutto il loro mondo erano loro stessi, e sicuramente erano più “ricchi” di coloro che passavano indifferenti.

Condividevano quel poco che avevano, spesso solo un tozzo di pane, ma basta sempre poco dove non c’è fame d’amore e di fiducia.

Mi abbassai, e temendo che il vecchio immobile, stesse male lo toccai su una spalla.

Il cane abbaiò per rammentarmi che era disposto a tutto pur di difendere il suo compagno di strada.

Come risposta al suo abbaiare, il vecchio aprì gli occhi, mi guardò e mi chiese:< Scusi signora, deve entrare?>

Con grande fatica cercò di alzarsi, ma io lo prevenni dicendogli: «No, stia pure giù, io non abito qui, sta bene? Di notte adesso ghiaccia, non è sufficientemente coperto».

«Si al freddo si fa l’abitudine, come alla fame. È l’indifferenza di chi passa che fa male al cuore, di chi, accecato dall’egoismo, sorvola su quello che vede.»

«Magari, risposi per mitigare la sua amarezza, molti temono di trovarsi di fronte un drogato, un ubriaco che cerca di impietosire con la presenza di un piccolo cane.»

«Il cane, continuò è tutta la mia vita, mi hanno abbandonato tutti, la famiglia, i figli, gli amici ma lui mi ha seguito ovunque. Certe volte ho tentato di andarmene via da solo, ma mi ha ritrovato sempre. È l’amico che preferisco: divide con me ogni cosa è silenzioso, non chiede nulla, non mi giudica, mi segue e rischia di essere cacciato con prepotenza da chi abita in questi palazzi.»

«Cosa posso fare per lei?»

«L’elenco sarebbe lungo, cara e gentile signora. Ieri le avrei risposto: mi aiuti a riconquistare i miei figli, gli amici, che ho perso, il lavoro, il benessere che, oggi, è un lontano ricordo. Ho un solo amico e si chiama Bum Bum. Se lui dovesse morire sarei più un barbone povero e disperato.»

Non riuscii a non chiedergli: «Come mai ha questo strano nome, non è comune per un cane.»

«Lo trovò mio figlio per strada, lo portò a casa, aveva una gamba rotta e zoppicava. Lo curammo e divenne un compagno di giochi per mio figlio che gli diede questo nome.»

«Anch’io, gli dissi, da piccola avevo un cane con questo nome e le volevo un gran bene.»

«Non ne dubito signora, continuò, raramente succede che qualcuno si fermi a parlare con me.»

«Posso aiutarvi, avete fame! Vado al bar e vi prendo qualcosa.»

Non disse nulla, abbassò gli occhi come si vergognasse ad ammettere la necessità di mangiare.

Andai al bar più vicino, presi due panini, una scatola di latte e ritornai a portarglieli.

«Tenga, gli dissi, lo so che il problema non si risolve con un panino ed un litro di latte, ma intanto vi nutre e da un po’ di calore al corpo infreddolito. Poi penseremo ad un aiuto più concreto.»

Con gli occhi umidi, mi rispose: «Lei fermandosi, portandoci da mangiare è come se ci avesse detto: non so chi sei e non mi interessa saperlo, per me sei un uomo in difficoltà e guardandoti non riesco a non pensare che la tua umanità è la mia.»

Lui capì la difficoltà che provavo a proseguire la mia strada e mi incitò dicendomi: «Cara signora, raggiunga chi l’aspettava, io e Bum Bum abbiamo la libertà e lei, prendendosi cura di noi, anche per poco, ha riacceso in noi la speranza. Il potere, la ricchezza sono una zavorra e induriscono il cuore.»

Girandomi per proseguire, lo salutai dicendogli che quella sera sarei uscita prima per comperare qualche piccola cosa, una coperta di paille, del pane, della frutta e cominciai a pensare a quale dei nostri amici potevo rivolgermi per aiutarli.

La sera comprai quello che poteva riscaldarli, cibo e coperte.

Ritornai dove ci eravamo incontrati sotto i portici, ma non trovai nessuno, tranne un pezzo di cartone con su scritto, in modo malfermo: Grazie!

Rimasi immobile per qualche minuto e pensai che quell’uomo era ancora ricco, di dignità e di riconoscenza, due valori che non puoi comprare con nessuna somma di denaro. Era quasi Natale e le luci, gli addobbi, i passanti con sportine piene di regali creavano un’atmosfera di festa, ma la vera festa è quella che ci fa rivolgere l’attenzione ai più bisognosi, ai malati, a chi è solo. Me ne tornai con le braccia piene di pacchetti e fui grata al caso per avermeli fatto incontrare. Quel grazie era per me il vero Natale.

Un giorno, dopo la terapia, la giornata era bella e decisi di fare una passeggiata.

Passando davanti ad un gruppetto di uomini, mi fecero un complimento.

Apprezzai questo gesto perché mi diede la prova che la mia femminilità non era mortificata ma si percepiva, ero ancora desiderabile.

Ringraziai mentalmente Monica, la mia parrucchiera. Ogni sera mi telefonava dopo il lavoro e trovava le parole adatte per rincuorarmi.

Lei gestiva con molta cura i miei capelli, la mia parrucca e mi conosceva molto bene, perché andavo da lei già da quando c’era mia madre.

Sono in due, lei che lavorava in negozio e suo fratello Matteo, gentilissimo.

Quando mamma era stata ricoverata, un giorno lo trovai in ospedale: era andato a trovarla e le aveva portato un mazzolino di fiori.

C’era tra noi un rapporto che andava oltre la semplice conoscenza. Vi voglio narrare come conobbi Matteo.

Ho sempre dato all’amicizia una valenza superiore all’amore, perché se è vera, si basa sulla confidenza, sulla condivisione, sull’affetto disinteressato ma soprattutto sulla volontà di una scelta.

Le vie che percorre questo sentimento sono, a volte, imprevedibili e strane e, sicuramente alcuni di voi ne avranno percorsa qualcuna.

Una mattina, in preda a dei pensieri fastidiosi, uscii e per scacciarli me ne andai a passeggiare in Centro, protetta dai bei portici della mia città

e costretta ad incollare gli occhi alle vetrine, che esponevano capi eleganti, oggetti creati da firme di prestigio.

Tra una vetrina e l’altra, i miei occhi si soffermarono su un negozio che non avevo mai notato prima, alzai gli occhi e sull’insegna molto particolare lessi: Un fiore per un sogno.

Che bella idea, pensai, abbinare i fiori con i sogni, entrambi hanno un loro linguaggio, una durata effimera, ma fanno vivere delle grandi emozioni.

Mi sentii dentro una sferzata di energia: mi ritrovai con una voglia nuova e aprii con decisione la porta del negozio.

Volevo conoscere chi era l’artefice che aveva una raffinata sensibilità ed eleganza.

Mi aspettavo una donna elegante, ingioiellata, invece mi venne incontro un giovane uomo che catalizzava l’attenzione per il suo sorriso, la mano pronta al saluto e la voce armoniosa.

Mi chiese: «Signora venga dentro, ha visto qualcosa che le piace?»

«Si, risposi, l’insegna mi ha spinto ad entrare perché ha solleticato la mia curiosità.»

«Guardi pure, io amo tanto questo lavoro, non lo vivo come tale, perché un lavoro presuppone una fatica e questo non lo è.»

«Deve essere bello e stimolante, continuai, vivere in mezzo ai colori, i profumi, abbinare  i fiori ad oggetti che li impreziosiscono.»

«Si, mi rispose, io amo quello che la gente non vede, queste piante le conosco una per una, e li seguo nell’arco della loro breve vita.»

Roberta si soffermò accanto ad un bouquet di zagara profumatissimo.

«Che fiori sono, chiesi.»

«sono fiori d’arancio, mi rispose, ed in Sicilia ne fanno bouquet per le spose.»

«Che meraviglia!»

«Si, ogni fiore ha un nome, un colore, una ragione per cui viene regalato e si tratta sempre di sentimenti: amore, amicizia, gelosia, fedeltà.»

«Vede, la gente si lascia attrarre dal profumo, dal colore, e non pensa che, chi li riceve in dono, oltre ad ammirarne la bellezza, attribuisce un significato ad un gesto che aspettava da sempre per sentirsi dire: ti amo, ti sono amica, non ti scordar i me. I fiori sono vivi e generosi, in cambio di un poco di acqua ti profumano la giornata. Sa quanti innamorati ho visto uscire da questo negozio, con in mano delle rose rosse, sicuri di avere trovato una soluzione ad un litigio o il modo di dichiarare i propri sentimenti quando si è timidi! Molti ragazzi entrano e rimangono fermi dinanzi al fiore preferito perché non hanno i soldi per poterlo comprare, tante volte gliel’ho regalato.»

Mi emozionavano le sue parole e non mi stupì per niente notare dalle sue movenze, dal timbro della voce, dalla cura estrema dei particolari, che era un gay.

Cosa conta, pensai, la diversità se si nutre di tanta sensibilità, di tanta cortesia e gusto?

Lui mi vide un attimo sovrappensiero e, con gentilezza, mi tolse dall’imbarazzo.

«Non si preoccupi, mi disse, e segua il suo istinto. Ho visto molti andar subito via dopo aver capito che sono gay. Vede, signora, per me non è più un problema, mi sono scontrato con l’immaginazione, con la cattiveria ma, grazie a Dio, l’amore vero mi ha redento da tutto il male che avevo subito.»

Si abbassò, prese un mazzetto di roselline bianche e me le diede accompagnandole, con queste parole: «Vede signora, nell’uomo c’è un potere che può dare la vita o distruggerla, ritenere normale o diverso un suo simile, ma esiste un amore che vede oltre, che vince la paura e dà il coraggio di vivere ciò che sei. Piacere di averla conosciuta, mi chiamo Matteo.»

Presi la mano che mi diede, la strinsi forte e risposi: «Io sono Roberta, grazie per questo dono ma soprattutto per le sue parole che confermano il mio pensiero al riguardo.»

Uscii, alzai gli occhi per inquadrare l’insegna e pensai che, in quel negozio, ogni fiore era in attesa di un sogno.

Nacque una bell’amicizia tra di noi che ci ha accompagnato in ogni circostanza della nostra vita.

Matteo mi ha fatto sognare con i suoi fiori in ogni ricorrenza, ha strappato un sorriso di gratitudine a mia madre in ospedale, ha confezionato un cuore lilla su cui riposò per sempre Kimberly.

Ho conosciuto il compagno con il quale vive un’unione lunga e fortunata, fedeli l’uno all’altro come nella cosiddetta normalità non succede.

Mi hanno fatto conoscere altri amici, come Francesco e, in tutti, ho trovato calore, disponibilità, intelligenza, capacità che mi hanno fatto sentire fortunata per averli conosciuti, perché solo con certe persone si possono condividere i sogni.

Continuavo la terapia con relativa tranquillità, dico relativa perché l’imprevisto poteva sempre affiorare.

Un giorno che avevo fatto delle punture, fattori di crescita per aiutare i globuli bianchi, stetti veramente molto male al punto da pensare ad un infarto.

Telefonai subito ad Antonio che mi tranquillizzò, dicendomi: «Niente paura, è il midollo che riprende a lavorare.»

Un antidolorifico mi fece subito stare bene. Ecco perché mi fidavo di Antonio, non mi aveva mai né mentito né compatita, mi stava solamente accanto facendo il suo lavoro in maniera eccellente.

Avevo tanti angeli ad aiutarmi, uno si chiamava Elisabetta, un’oncologa che lavorava in day hospital. Riuscivo a catturare facilmente l’anima della gente, che si stupiva della mia vitalità, del mio buonumore, pur essendo ammalata.

Anche con lei iniziò una bella amicizia che dura tuttora.

Frequentandola ho capito che lei vive il suo amore per la vita, facendo quel lavoro.

Non è esentata dalla sofferenza, ma come me ama la vita.

Mi ricordo un week and con lei a Merano. Fu una bella vacanza, ci trattammo bene e ci facemmo tante confidenze, che ci aiutarono a capire l’un l’altra.

Capivamo entrambe il valore intrinseco di ogni cosa, anche la più banale ma, riuscivamo, nonostante tutto a vivere con “leggerezza” che non è superficialità, ma passare attraverso i fatti, gli eventi con un giusto distacco.

Roberto era sorpreso dalla mia positività, dalla capacità di fare tutta la terapia, ormai avevo quasi finito, con relativa serenità, sempre capace di intrecciare bei rapporti, di farmi apprezzare e di essere certe volte io ad essere d’aiuto agli altri.

Finita la chemio, decidemmo di andare in vacanza in Liguria.

Era già caldo e la “mia amica” mi provocava sudorazione, pensai di alternarla ai cappelli.

Tutti distesi al sole mentre io non potevo espormi, la mia pelle era bianchissima. Una mattina, io e Roberto facemmo un visita a San Fruttuoso, un sole caldo, un cielo azzurro che si rifletteva nel mare, popolato da tanti che come me amavano quella natura generosa che regalava serenità e voglia di pensare al domani.

Intanto ci fu comunicata la data dell’intervento.

Sapevamo bene che era nei programmi, ma saperla con certezza ci riportò immediatamente alla gravità del problema.

Portammo Bum Bum da un’amica e lasciarlo ebbe, per me, un costo emotivo, vedermi guardata dai suoi occhioni teneri mi commosse, sembrava capisse che quel momento era per me molto difficile.

Lasciai casa con fatica, ogni oggetto mi era amico, nel bello e nel brutto dei ricordi, lì c’erano  i miei pensieri, anche quelli più profondi, le mie voglie, la mia vita con Roberto, ma stavo lasciando tutto questo, mi sentivo lacerata dentro.

Quel momento mi servì: compresi che si deve sempre mantenere un sano distacco sia dalle persone che dalle cose, anche se le amiamo, perché nulla ci può appartenere per sempre.

In copertina: Franco Lo Cascio (Palermo 1942), “Murales a Castellana Sicula”, 2019, cm. 400×200, acrilico su parete in gesso.

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