L’accusa di falsa testimonianza rivolta all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è oggetto della prima parte della requisitoria dei pm all’udienza odierna del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Il pubblico ministero Nino Di Matteo, che ha parlato di “omertà istituzionale”, ha indicato alla corte d’assise che celebra il dibattimento le contestazioni a carico dell’ex politico Dc, imputato di avere mentito nel corso del processo per favoreggiamento all’ex capo del Ros Mario Mori.
Mancino ha sempre negato, ribadendolo davanti ai giudici, di aver saputo dall’allora Guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, contatti che, secondo la Procura, avrebbero costituito il prologo della cosiddetta trattativa. Martelli, che dei rapporti tra i militari dell’Arma e Ciancimino aveva saputo dal suo direttore degli Affari penali Liliana Ferraro, ha raccontato di aver parlato, già il 4 luglio del 1992, a Mancino della vicenda.
Irritato e preoccupato per quanto saputo dalla Ferraro, avrebbe avvertito il collega degli Interni. Conversazione che Mancino nega sia avvenuta, secondo l’accusa, per tutelare Mori e i suoi. Nella prospettazione della Procura l’ex ministro dell’Interno, messo al posto del suo predecessore Enzo Scotti perché favorevole a una linea di dialogo con la mafia, avrebbe dunque negato il dialogo con Martelli proprio per “proteggere” il Ros che aveva avviato un contatto con Ciancimino. “Martelli non ha pregiudizi accusatori verso collega di governo, anzi pare preoccupato delle conseguenze delle sue dichiarazioni per Mancino – spiega Di Matteo “difendendo” la genuinità delle parole dell’ex Guardasigilli – Martelli non nutriva sospetti su Mancino allora, né sull’esistenza di trattative in corso”.
“Mancino era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli e perciò esercitò un pressing costante e ostinato verso il Quirinale per sollecitare un intervento che gli consentisse di evitarlo”.
Lo ha detto il pm Nino Di Matteo nel corso della requisitoria del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, illustrando alla corte d’assise che celebra il dibattimento, la posizione dell’imputato Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno accusato di falsa testimonianza.
Di Matteo ha letto in aula brani delle intercettazioni delle telefonate tra Mancino e l’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio dalle quali, secondo la Procura, si evincerebbero i tentativi del politico di sollecitare un intervento del Colle per scongiurare il confronto con Martelli.
“Temeva che da quel confronto – ha spiegato Di Matteo – si evidenziasse la sua reticenza e ha sfruttato il suo peso di uomo di potere per ostacolare le indagini”. Martelli aveva dichiarato di aver avvertito Mancino, già dal ’92, dei contatti anomali tra i carabinieri del Ros e il sindaco mafioso Vito Ciancimino, circostanza invece sempre smentita da Mancino. E proprio su questo punto doveva svolgersi e si svolse il confronto tra i due.
Il “tentativo di scongiurare il confronto – ha detto il pm – venne assecondato dal Quirinale e dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, almeno secondo quanto emerge dalle parole intercettate di D’Ambrosio“. L’ex capo del Viminale, nelle sue conversazioni con il consigliere, lamentava inoltre un contrasto tra l’azione delle tre procure (Firenze, Palermo e Caltanissetta) che si occupavano della trattativa Stato-mafia, evidenziando che Palermo seguiva una linea tutta sua.
Dalle intercettazioni emerge in realtà che l’ex consigliere giuridico del Quirinale, più volte disse a Mancino, preoccupato per la vicenda, che se si fosse prospettato, come l’ex ministro diceva, un contrasto tra pm l’unico che sarebbe potuto intervenire sarebbe stato il capo della Dna, Pietro Grasso, per legge incaricato di coordinare l’azione tra gli uffici inquirenti. Grasso in effetti venne investito della questione e risolse la cosa sostenendo che nessun contrasto c’era stato tra i magistrati e che non poteva prospettarsi alcuna avocazione dell’indagine dei pm di Palermo. Di fatto, dunque, le preoccupazioni di Mancino non ebbero alcun seguito ed effetto sullo svolgimento dell’inchiesta.
Ieri Di Matteo aveva espresso un pesante giudizio anche sull’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, accusandolodi aver detto il falso: “Dopo la strage di Capaci, anche sull’onda emotiva dell’attentato, viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che, come vedremo, con le sue scelte, non si è limitato al ruolo di arbitro. Anzi, è stato il principale attore di decisioni di cui in questo processo abbiamo parlato: la nomina di Mancino al posto di Scotti al Viminale, la scelta del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli. Il ruolo di Scalfaro nell’avvicendamento tra Scotti e Mancino alla guida del ministero dell’Interno ha fatto emergere evidenti reticenze e falsità nelle dichiarazioni rese dal presidente Scalfaro a questa Procura nel 2010″.
Di Matteo a dimostrazione della falsità delle dichiarazioni di Scalfaro, che sostenne di non aver saputo nulla di eventuali connessioni tra le stragi mafiose del ’92 e del ’93 e la decisione politica di allentare i rigori del 41 bis, cita la deposizione al processo di un altro ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Napolitano dichiarò che “dopo gli attentati del 1993 le più alte cariche dello Stato propendevano per la tesi che quelle bombe corrispondessero a un ricatto dell’ala corleonese di cosa nostra”.
Per la Procura per portare avanti la linea del dialogo con chi aveva messo le bombe era necessario spostare l’asse politico verso la corrente della sinistra democristiana a cui apparteneva il ministro Mancino. “Per fare questo era necessario – ha aggiunto Di Matteo – spezzare l’asse della fermezza portato avanti dall’azione congiunta dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Scotti e Martelli. Di fronte all’intrapresa linea del dialogo chi sosteneva la linea del dialogo non poteva sopportare la presenza di Vincenzo Scotti, principale fautore della linea di fermezza nel contrasto a cosa nostra, al vertice dell’Ordine pubblico”.