Negli ultimi giorni la Sicilia è diventata l’epicentro di una potenziale crisi che da tempo covava sotto traccia nella filiera della plastica italiana. Il punto di emersione è stato l’incontro tra Regione Siciliana e ANCI Sicilia, raccontato anche da IlSicilia.it, dove è emersa con chiarezza la preoccupazione crescente dei sindaci.
Nell’incontro ANCI Sicilia ha parlato di criticità ormai “non più gestibili” per molti comuni, mentre Francesco Colianni, l’assessore regionale all’Energia e Rifiuti, ha dichiarato l’intenzione di farsi portavoce presso il governo nazionale di una situazione che rischia di sfociare in un blocco operativo della raccolta differenziata.
La saturazione degli impianti, l’aumento dei costi di trattamento e il ricorso sempre più frequente a trasferimenti extraregionali sono i sintomi più evidenti di un sistema che non riesce a reggere la pressione.
Le prime conseguenze sulla gestione dei rifiuti si sono presentate in Sardegna, dove almeno un comune ha dovuto sospendere temporaneamente la raccolta della plastica, e appunto in Sicilia, dove molti comuni hanno emesso delle ordinanze per rallentarla..
La Sicilia si trova oggi con piattaforme di selezione che lavorano al limite, con tonnellate di plastica accantonate in attesa di trattamento e con comuni costretti a fare i conti con costi altissimi per spedire altrove ciò che non può essere lavorato nell’isola. I centri di raccolta comunale restano intasati, le società di igiene urbana affrontano ritardi nei conferimenti e i flussi della differenziata si inceppano in più punti della catena creando problemi di gestione, “seri rischi” sul piano igienico-sanitario e rischi legati a incendi ed esplosioni, come denunciato da Anci Sicilia (l’associazione che riunisce i sindaci della regione), che ha appunto richiesto l’incontro urgente con l’assessore regionale all’Energia Francesco Colianni.
È una crisi che tocca non solo la sostenibilità ambientale, ma anche la tenuta finanziaria degli enti locali.
Eppure, ciò che accade in Sicilia è anche un segnale di ciò che sta accadendo a livello nazionale. L’Italia si è trovata improvvisamente esposta a una combinazione di fattori: la caduta dei prezzi della plastica riciclata, la concorrenza dei polimeri vergini provenienti soprattutto dalla Cina, la riduzione della domanda interna e un quadro normativo europeo che spinge verso una trasformazione strutturale del settore. Le imprese di riciclo italiane hanno visto assottigliarsi i margini e molte hanno ridotto i volumi trattati, con effetti a cascata sulle regioni meno dotate di impianti, come la Sicilia.
All’inizio di settembre una trentina di associazioni che rappresentano le aziende di riciclo di materie plastiche in tutta Europa, compresa Assorimap (per l’Italia), aveva inviato una lettera congiunta alla Commissione Ue chiedendo interventi immediati per sostenere la filiera. Nella lettera segnalava che la produzione europea di plastica (vergine o riciclata) era calata dell’8,3% nel 2023 e che la quota di mercato globale dell’Europa era passata dal 22 al 12% in meno di 20 anni.
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Plastics Recyclers Europe, organizzazione che rappresenta i riciclatori di plastica europei, tra gennaio e luglio di quest’anno questo settore industriale ha perso una capacità di riciclo simile alla perdita registrata in tutto il 2024 e dal 2023 hanno portato alla chiusura di circa 40 impianti di riciclaggio, con Regno Unito e Paesi Bassi in testa.
A metà settembre Assorimap, l’Associazione nazionale riciclatori e rigeneratori di materie plastiche che rappresenta il 90% della filiera, aveva inviato una lettera anche al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, denunciando la crisi del settore e parlando del rischio molto concreto di un’interruzione delle attività entro poche settimane. Si diceva che questo blocco avrebbe a sua volta paralizzato del tutto la gestione nazionale della raccolta differenziata: “La filiera che conta complessivamente oltre 350 imprese, impiega più di 10mila addetti e dispone di una capacità installata di riciclo pari a 1 milione 800mila tonnellate, rischia il collasso”.
“Il blocco degli impianti di riciclo privati – sottolinea l’associazione – “porterà a un effetto domino immediato, paralizzando il sistema nazionale dei rifiuti. I piazzali dei centri di stoccaggio e di selezione sono già stracarichi e ai limiti autorizzativi previsti”. Se noi riciclatori smettiamo del tutto di processare i lotti, il sistema di selezione si bloccherà nel giro di qualche settimana. A quel punto, non ci sarà più spazio per conferire la plastica raccolta in modo differenziato dai cittadini”, spiega Regis.
Già negli scorsi mesi Assorimap aveva lanciato l’allarme, presentando dati incontrovertibili sul tracollo del settore: utili di esercizio crollati dell’87% dal 2021, passando da 150 milioni di euro a soli 7 milioni nel 2023, con una proiezione verso lo zero per il 2025. Il fatturato delle aziende, dal 2022, ha perso il 30%. Una crisi condivisa da tutta la filiera, stretta tra i costi dell’energia – i più alti d’Europa – e la concorrenza insostenibile delle importazioni extra-Ue di plastica vergine e riciclata a prezzi stracciati.
Le soluzioni proposte da Assorimap al Mase sono ancora sul tavolo per superare la crisi, partono dalla richiesta di anticipo al 2027 dell’obbligatorietà del contenuto di plastica riciclata negli imballaggi e spaziano dal riconoscimento dei crediti di carbonio per chi produce materia prima seconda sino ad arrivare all’estensione dei certificati bianchi, passando per maggiori controlli sulla tracciabilità delle importazioni fino ad arrivare a sanzioni efficaci.
A livello internazionale, la competizione è diventata feroce. La Cina, dopo aver chiuso le porte all’importazione dei rifiuti plastici con la politica “National Sword”, ha investito massicciamente nella produzione di polimeri vergini.
Il risultato è che oggi sul mercato globale circola una quantità enorme di plastica nuova a prezzi bassissimi, rendendo economicamente meno conveniente l’acquisto di plastica rigenerata. È un paradosso che mette in crisi proprio quelle filiere che l’Europa ha spinto a costruire negli ultimi vent’anni.
La Sicilia diventa così la lente d’ingrandimento di un fenomeno più vasto: l’incapacità del sistema italiano di sostenere una filiera del riciclo che dipende ancora troppo da dinamiche esterne. L’incontro Regione–ANCI non è quindi solo un episodio amministrativo, ma un punto di emersione della fragilità strutturale del sistema.
Proviamo a dare in questo articolo un quadro completo di ciò che sta accadendo e delle prospettive future di un settore chiave per la transizione ecologica dell’Isola e delll’Italia.
La fragilità infrastrutturale siciliana
Il problema della gestione della plastica e dei rifiuti in Sicilia non è nuovo: affonda le sue radici in una programmazione impiantistica discontinua, nell’assenza di un sistema regionale integrato e nella difficoltà cronica di chiudere il ciclo all’interno dell’isola. Per anni la raccolta differenziata è cresciuta più rapidamente della capacità di trattare i flussi, generando uno squilibrio progressivo tra ciò che viene conferito dai cittadini e ciò che la filiera può effettivamente lavorare.
Molti comuni segnalano che le piattaforme comunicano disponibilità ridotte o calendarizzazioni limitate, imponendo alle aziende di raccolta ritardi e stoccaggi provvisori. Questo si traduce in costi maggiori e in inefficienze operative. Alcune società sono costrette a rimandare gli svuotamenti dei contenitori stradali o a prolungare i tempi di raccolta porta a porta, con effetti visibili sulla qualità del servizio.
A questo si aggiunge un secondo elemento: la mancanza di impianti di trattamento avanzato e di riciclo vero e proprio. La Sicilia non dispone di un polo industriale capace di trasformare in maniera competitiva la plastica selezionata in materia prima-seconda. Le imprese presenti sul territorio lavorano quantità limitate rispetto ai volumi complessivi prodotti. Il risultato è una dipendenza strutturale dal resto d’Italia e, in alcuni casi, dal resto d’Europa.
Un esempio lo è l’impianto TMB di Palermo che gestisce anche la plastica, ma non nel senso di un riciclo completo in loco. L’impianto ha il compito di separare la frazione plastica dai rifiuti indifferenziati per inviarla al corretto recupero a consorzi o aziende che si occupano del riciclo vero e proprio, riducendo così la quantità di materiale destinato alla discarica. Quindi, la plastica viene sì trattata all’interno dell’impianto, ma come fase di selezione e non di trasformazione finale in nuovi prodotti.
Ogni volta che un impianto dell’isola si ferma o riduce la propria capacità, la reazione a catena è immediata: i comuni devono conferire altrove, spesso in regioni del Nord dove le piattaforme di selezione e gli impianti di riciclo sono più efficienti. Il trasporto su gomma o via nave aumenta i costi, prolunga i tempi e riduce la competitività della plastica siciliana rispetto ai flussi provenienti da territori più vicini agli impianti.
La Regione Siciliana, negli anni, ha cercato più volte di avviare una strategia di potenziamento impiantistico, ma i processi autorizzativi complessi, i ricorsi, le opposizioni locali e la frammentazione amministrativa hanno rallentato ogni tentativo. Anche laddove gli impianti sono stati progettati, la loro realizzazione ha subito ritardi significativi. Non esiste oggi un piano strutturale che garantisca una capacità sufficiente per i prossimi dieci anni.
Le SRR (Società per la Regolamentazione del Servizio dei Rifiuti), nate per coordinare i territori, si trovano spesso a operare con risorse limitate e con quadri regolatori complessi. Ogni territorio ha procedure proprie, calendari diversi, contratti differenti, e questo rende difficile creare un sistema omogeneo ed efficiente. La conseguenza è una filiera frammentata, dove ogni criticità locale rischia di trasformarsi rapidamente in un problema regionale.
Le difficoltà non riguardano solo i materiali raccolti, ma anche la struttura logistica dell’isola. La posizione geografica della Sicilia rende più complesso e costoso ogni trasferimento verso la penisola. Le imprese di trasporto devono sostenere costi marittimi elevati, e ciò incide direttamente sui bilanci dei comuni. La filiera siciliana, già fragile, diventa così vulnerabile alle oscillazioni del mercato nazionale e internazionale.
Il tema cruciale è la mancanza di un modello industriale interno. Senza impianti moderni, senza un sistema autorizzativo rapido e senza un quadro di investimenti coordinato, la Sicilia continuerà a dipendere da impianti esterni. Ogni aumento della raccolta differenziata rischia dunque di trasformarsi in un problema anziché in un’opportunità. La fragilità infrastrutturale non è solo un limite operativo: è un limite economico e culturale.
La mancanza di impianti avanzati impedisce la creazione di valore nei territori, sottrae opportunità alle imprese locali, riduce l’attrattività di settori innovativi come l’upcycling e il design circolare, e priva la Sicilia della possibilità di sviluppare una filiera industriale competitiva.
Questa debolezza strutturale, sommata alle pressioni nazionali e internazionali, spiega perché l’isola sia in prima linea nella crisi attuale. Ed è proprio per comprendere dove nascono le disfunzioni del sistema che è necessario guardare da vicino il funzionamento concreto della filiera del rifiuto della plastica.
Come funziona la filiera della plastica in Sicilia?
In Sicilia il percorso che porta un imballaggio di plastica dal cassonetto alla rigenerazione industriale è un viaggio complesso, disperso tra ritardi strutturali, carenze impiantistiche e lunghi spostamenti fuori regione. La filiera inizia nell’atto più semplice — il conferimento da parte dei cittadini — ma già in questo primo passaggio emergono differenze significative tra territori: alcuni comuni mantengono percentuali di raccolta differenziata sopra la media regionale, altri ancora arrancano con percentuali basse, disomogeneità organizzative e difficoltà nei servizi di prossimità.

Dopo il conferimento, il rifiuto plastico entra nella gestione delle società affidatarie del servizio, che operano la raccolta e il trasporto verso i centri comunali di raccolta o verso i siti di trasferenza. Qui il materiale viene compattato e preparato per il passaggio successivo, quello dei centri di selezione, che rappresentano uno snodo cruciale della filiera. È in queste piattaforme che le plastiche vengono riconosciute, distinte per tipologia, separate dagli scarti e suddivise in flussi omogenei. Ed è proprio in questo punto che si concentra una delle prime criticità: la Sicilia dispone di un numero insufficiente di impianti pienamente funzionanti, spesso sovraccarichi e non in grado di gestire i volumi crescenti della raccolta differenziata.

Il risultato è duplice: una parte del materiale resta in attesa di essere trattata, accumulandosi nelle piattaforme, mentre un’altra parte — quando la capienza è satura — deve essere trasferita fuori regione. Il trasferimento avviene via nave o su gomma attraverso la penisola, con costi molto elevati che ricadono sui bilanci dei comuni siciliani e, di conseguenza, sulle tariffe dei cittadini.
Questo passaggio, oltre a essere oneroso, sottrae efficienza alla filiera e diluisce il valore economico del materiale, che dopo lunghi trasporti tende a perdere competitività rispetto ai flussi più “puliti” e immediatamente trattabili provenienti da altre regioni.
Una volta selezionata, la plastica viene inviata agli impianti di riciclo veri e propri, dove avviene la trasformazione in granuli o in altre forme di materia prima-seconda. Qui si innesta un’altra vulnerabilità: la Sicilia non dispone di una rete industriale sufficiente a chiudere la filiera sul territorio. Le aziende che rigenerano plastica esistono, ma non sono numericamente in grado di assorbire l’intero flusso proveniente dall’isola, né dispongono della stessa capacità produttiva delle realtà del Nord Italia o dell’Europa centrale.
In assenza di una filiera strutturata, coerente e capillare, il sistema siciliano si trova dunque esposto alle oscillazioni del mercato nazionale e internazionale. Se il prezzo della materia riciclata scende, se i competitor extraeuropei inondano il mercato con prodotti di nuova generazione a basso costo, o se i costi logistici aumentano, il materiale raccolto perde convenienza. È in questo punto preciso che nasce la crisi attuale: una filiera disarticolata, costi aumentati, scarsa capacità di selezione e riciclo interno, e una struttura che non riesce a reggere i volumi generati dalla crescita della differenziata.
A pagare le conseguenze non è solo il settore industriale, ma l’intera catena che va dai comuni agli operatori della raccolta, fino ai consorzi e alle imprese private coinvolte nei processi di recupero.
Il risultato finale è un sistema che fatica ad assorbire la plastica prodotta, si inceppa nei suoi snodi principali e oggi vive una crisi che, pur inserita in dinamiche nazionali e globali, trova nella carenza infrastrutturale siciliana il suo tallone d’Achille storico.
Le criticità del sistema nazionale della plastica riciclata
La crisi che oggi rischia di esplodere in Sicilia è strettamente collegata a una più ampia debolezza del sistema nazionale della plastica riciclata. Per comprenderne le cause, bisogna guardare a come negli ultimi anni è cambiato il mercato italiano degli imballaggi e alla struttura industriale che sostiene — o non sostiene — il settore.
Il primo fattore rilevante riguarda il crollo del prezzo della plastica riciclata. Fino a pochi anni fa, il prezzo del polietilene riciclato (R-PE) e del polipropilene riciclato (R-PP) era competitivo rispetto al materiale vergine. Ma la produzione massiccia di polimeri nuovi provenienti dalla Cina e dal Medio Oriente ha abbassato i prezzi internazionali. L’Italia, che importa gran parte delle materie prime plastiche, ha visto ridursi il differenziale di costo che fino a poco tempo fa aveva favorito l’acquisto di materie riciclate.
Quando il materiale vergine costa meno, l’industria tende a preferirlo: è più omogeneo, più facilmente lavorabile e spesso più conveniente. Molte aziende italiane del packaging hanno quindi ridotto la domanda di plastica rigenerata, innescando un effetto a cascata su tutta la filiera del riciclo.
Secondo punto: la struttura industriale italiana è sbilanciata. L’Italia è la seconda manifattura d’Europa, ma la distribuzione degli impianti di riciclo è fortemente concentrata nel Nord. Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ospitano il grosso degli impianti avanzati di selezione, triturazione, estrusione e rigenerazione. Il Mezzogiorno, Sicilia compresa, è invece quasi del tutto privo degli stadi più avanzati del ciclo.
Questo squilibrio produce due effetti per il secondo fattore destabilizzante. Il primo: costi di trasporto enormi. Il secondo: tempi di trattamento più lunghi, che incidono sulle pianificazioni comunali.
Le regioni del Sud, Sicilia in testa, subiscono una sorta di “pendolarismo dei rifiuti” verso il Nord, che diventa sempre più insostenibile.

Terza causa: l’incertezza normativa nazionale ed europea. Negli ultimi cinque anni il settore degli imballaggi è stato investito da una serie di riforme continue: nuove direttive europee sugli imballaggi (PPWR), limiti al monouso, nuovi target di riciclo, revisione della responsabilità estesa del produttore, discussioni sull’introduzione di cauzioni-obbligo (deposit return system).
Molte imprese italiane hanno preferito attendere chiarimenti anziché investire. Le piattaforme di selezione si sono trovate con impianti che necessitavano aggiornamenti, ma senza la certezza di quali materiali avrebbero mantenuto valore nel medio periodo. Le industrie del packaging hanno rallentato la transizione al riciclato, mentre quelle chimiche hanno investito nel riciclo meccanico solo in parte e con tempi lunghi.
Quarto elemento: la crisi energetica del 2021-2023. Gli impianti di riciclo sono energivori: selezionare, lavare, macinare, estrudere la plastica richiede enormi quantità di energia elettrica. L’aumento dei costi energetici ha inciso pesantemente sui bilanci, riducendo ulteriormente i margini.
Alcune aziende hanno limitato i turni di produzione; altre hanno rallentato l’acquisto di materiale da trattare. Questo ha creato un collo di bottiglia nella fase che sta tra la raccolta e il trattamento.

Quinto fattore: la complessità amministrativa italiana. Il riciclo industriale richiede continue autorizzazioni, aggiornamenti AIA, valutazioni ambientali, nulla osta dei comuni e delle regioni. Ogni ampliamento o innovazione impiantistica è soggetto a iter spesso pluriennali. Impianti previsti da oltre dieci anni non sono ancora operativi; altri funzionano con autorizzazioni provvisorie.
Nel frattempo la produzione di imballaggi è aumentata e la raccolta differenziata è migliorata, ma gli impianti che dovrebbero ricevere quei materiali non sono cresciuti allo stesso ritmo.
Infine, un fattore meno evidente, ma decisivo: la mancanza di un mercato stabile per i prodotti in plastica riciclata. Mentre altri paesi europei — come Germania, Francia e Paesi Bassi — hanno introdotto obblighi minimi di contenuto riciclato in molti imballaggi, l’Italia si muove più lentamente.
Senza obblighi certi, il mercato rimane volatile, e gli impianti di riciclo non possono programmare investimenti di lungo periodo.
Tutti questi elementi convergono in un punto preciso: quando il sistema nazionale rallenta, a soffrirne per prime sono le regioni con meno impianti, meno infrastrutture e maggiori costi logistici. In altre parole: tra queste anche la Sicilia.
Pressioni internazionali e il ruolo della Cina
Per comprendere l’attuale crisi della plastica in Italia e in Sicilia, bisogna guardare oltre i confini nazionali. È sul piano internazionale che si è generata la tempesta perfetta che oggi investe la filiera del riciclo. Negli ultimi cinque anni, infatti, la Cina ha assunto un ruolo determinante, destinato a cambiare in modo strutturale l’economia globale della plastica.
Nel 2018 Pechino introdusse la politica “National Sword”, chiudendo le importazioni di rifiuti plastici dall’Occidente. In un solo anno il flusso globale di plastic waste venne completamente ridisegnato. Se in passato Europa e Stati Uniti esportavano in Cina una parte significativa dei rifiuti plastici, oggi quel canale è definitivamente chiuso. Questo ha costretto l’Europa — Italia compresa — a farsi carico internamente di volumi di rifiuti che prima venivano esportati.
Parallelamente, mentre chiudeva le frontiere ai rifiuti, la Cina ha investito massicciamente nella produzione nazionale di polimeri vergini. Con una capacità produttiva enorme e costi energetici più bassi, Pechino ha immesso sul mercato globale grandi quantità di polietilene e polipropilene a prezzi estremamente competitivi. Nel frattempo, nuovi mega-impianti in Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti hanno ulteriormente ampliato l’offerta di plastiche vergini.
Il risultato è un mercato completamente sbilanciato: la plastica nuova costa poco, mentre il riciclato resta più caro da produrre. Questa dinamica colpisce direttamente l’industria europea del riciclo, che opera con costi energetici, normativi e ambientali molto più elevati rispetto ai competitor asiatici. La filiera europea, già fragile, si trova a competere con materiali a basso costo che entrano nel continente, riducendo la domanda interna di plastica rigenerata. Le imprese italiane — soprattutto quelle che operano su margini ridotti — tendono a preferire polimeri vergini, più uniformi e più economici. Ciò riduce ulteriormente la domanda di materiale trattato dagli impianti italiani.
In questo scenario, i Paesi del Sud Europa risultano i più penalizzati. Italia, Spagna e Grecia hanno capacità impiantistiche più limitate rispetto ai Paesi del Nord, e quindi ogni oscillazione del mercato globale ha un impatto maggiore. La Sicilia, priva di impianti avanzati e con una forte dipendenza logistica, insieme alla regioni del Sud sono quelle che risentono immediatamente di queste dinamiche.
Un altro elemento internazionale è legato alle nuove norme europee. L’Unione sta introducendo obiettivi più ambiziosi sul riciclo e sulla riduzione della plastica monouso. Questo, da un lato, aumenta le pressioni sulle filiere nazionali; dall’altro, crea incertezza per le imprese, che non sanno ancora quali tipi di imballaggi saranno consentiti o economicamente sostenibili nei prossimi anni.
Anche il mercato globale del riciclo chimico — nuova frontiera industriale — è guidato da Stati Uniti e Cina. Questi Paesi stanno investendo miliardi in impianti che trasformano i rifiuti plastici non riciclabili meccanicamente in nuovi polimeri. L’Europa, e in particolare l’Italia, si muove più lentamente, con processi autorizzativi lunghi e investimenti ancora insufficienti.
Il quadro internazionale, dunque, non è un contorno, ma la causa profonda della crisi. Quando il prezzo della plastica vergine crolla per fattori globali, la filiera italiana — già fragile — entra in sofferenza. E quando la filiera nazionale rallenta, la Sicilia è tra le prime a pagarne il prezzo.
L’emergenza plastica in Sicilia non è un incidente isolato né un problema temporaneo. È il punto di incontro di tre livelli di crisi: locale, nazionale e globale. L’isola si trova al centro di una tensione strutturale che mette insieme fragilità impiantistiche interne, ritardi nella programmazione italiana e un mercato internazionale dominato da dinamiche sui prezzi che sfuggono al controllo dei singoli Stati europei.
Il quadro globale e le prospettive: cosa fare?
Guardando al futuro, il primo nodo da affrontare è la costruzione di una filiera interna realmente autonoma. Senza investimenti in impianti di selezione e riciclo avanzato, la Sicilia continuerà a dipendere da scelte che avvengono altrove. Servono autorizzazioni più rapide, impianti moderni, integrazione tra SRR, programmi industriali capaci di trattenere i materiali sul territorio.
Sul piano nazionale, il Governo deve definire politiche stabili: incentivi al contenuto riciclato, sostegni all’industria del riciclo, tariffe energetiche agevolate per gli impianti, definizione chiara delle regole sugli imballaggi, sostegno all’Italia nei negoziati europei. Senza un quadro stabile, le imprese non possono programmare investimenti.
A livello europeo e internazionale, sarà decisivo il confronto con i Paesi extra-UE, soprattutto con la Cina. L’Europa dovrà scegliere se introdurre misure correttive contro la concorrenza dei polimeri vergini a basso costo, come dazi, limiti o requisiti minimi obbligatori di contenuto riciclato negli imballaggi. Senza correttivi, la plastica vergine continuerà a invadere il mercato europeo, soffocando la filiera del riciclo.
Infine, c’è un tema culturale e industriale che è cruciale: la plastica non è solo un rifiuto, ma una risorsa potenziale. In un mondo dominato dalla scarsità di materiali e dalla necessità di ridurre le emissioni, il riciclo è un asset strategico, non un costo. La Sicilia, con la sua posizione centrale nel Mediterraneo, potrebbe diventare un hub di innovazione nel riciclo se sostenuta da una strategia industriale adeguata.
L’emergenza attuale, pur drammatica, può diventare l’occasione per ripensare l’intero sistema. Per la Sicilia come per l’Italia, il punto non è evitare la crisi, ma trasformarla in un’opportunità per costruire un futuro in cui la plastica non sia più un problema, ma un valore.



