Appartamenti, ville, alberghi, società, imprese, esercizi commerciali. C’è di tutto nel lungo elenco dei beni mobili e immobili confiscati dallo Stato alle mafie. Un patrimonio che secondo la legge dovrebbe essere riutilizzato a fini sociali e produttivi e che, invece, nella maggior parte dei casi finisce in malora.
Molti di questi si trovano in Sicilia. È la regione in cui nacque il fenomeno mafioso, ma anche la terra che diede i natali a Pio La Torre, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quella con il più alto numero di beni sottratti ai boss. Proprio il segretario regionale del Pci fu l’autore della legge che introdusse il reato di associazione mafiosa, nonchè il sequestro e la confisca dei beni ai boss. Il testo fu approvato dal Parlamento dopo il suo barbaro assassinio avvenuto a Palermo nell’aprile del 1982.
Da allora molti passi in avanti sono stati fatti. All’indomani delle stragi il movimento antimafia fu protagonista di una straordinaria mobilitazione per la presentazione e l’approvazione, nel 1996, di una proposta di legge di iniziativa popolare che favorisse il riuso dei beni confiscati. Negli anni sui beni sottratti ai boss sono nate cooperative, agriturismi, centri culturali polivalenti … ma questo modello non è diventato sistema. Si tratta di poche esperienze a fronte di una quantità sterminata di immobili e aziende in stato di abbandono.
Gli ultimi dati reperibili sul sito dell’Anbsc ci dicono che nell’Isola sono presenti 4.353 beni destinati, ovvero per i quali l’Agenzia ha già deciso cosa fare. Non sono visibili, invece, quelli gestiti direttamente dall’Agenzia.
I beni immobili
Gli immobili sono 4.026. Alcuni mantenuti al patrimonio dello Stato ed utilizzati per fini istituzionali. Si tratta di edifici adibiti a caserme o a sedi di enti pubblici. Altri trasferiti al patrimonio degli enti territoriali e quindi assegnati, ad esempio, ai comuni che a loro volta decidono se utilizzarli direttamente per le proprie attività o affidarli ad associazioni con l’obiettivo di erogare servizi di pubblica utilità ai cittadini.
Ci sono poi beni con una vocazione produttiva, come i terreni agricoli utilizzati da cooperative di giovani e disoccupati per produrre grano o vino. Realtà che ogni anno richiamano centinaia di persone provenienti da tutto il mondo per fare un’esperienza unica nei campi di lavoro. Le prime sono nate in Sicilia a Corleone, città simbolo del potere di Cosa nostra, ma anche città in cui l’antimafia viene praticata in modo concreto.
Le aziende
Le aziende sono 327. La maggior parte di esse, ben 152, operava nel campo delle costruzioni, uno dei settori prediletti dalle cosche. Operava perchè solo una manciata si sono salvate dalla procedura di liquidazione. È questo, infatti, il destino ineluttabile che le accomuna quasi tutte. Imprese andate in fumo e il cui fallimento lascia centinaia di persone senza lavoro. Alcune, una decina circa, sono state destinate alla vendita, 3 all’affitto.
Una vera e propria sconfitta per lo Stato che non riesce a garantire il diritto al lavoro laddove la mafia, nel bene e nel male, dava occupazione. Un messaggio culturale terrificante. E a poco serve dimostrare, in una terra arida di aziende e di opportunità come la Sicilia, che le imprese mafiose sottraggono linfa all’economia legale, impediscono alle imprese sane di crescere …. se poi le istituzioni dopo la confisca non sono capaci di garantire la sopravvivenza delle aziende confiscate.
Sono davvero pochi i beni tolti alla mafia gestiti in modo virtuoso, non solo in Sicilia ma in tutto il Paese. Segno che il sistema non funziona. Da qualunque parte lo si guardi c’è qualcosa che non va. Dalla lentezza delle procedure di sequestro e confisca alle lacune mostrate dal modello dell’amministrazione giudiziaria, al netto delle deviazioni emerse nell’ambito dell’inchiesta Saguto. C’è poi il tema del ruolo ancora troppo debole ricoperto dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e della mancanza delle risorse necessarie per ristrutturare i beni e rilanciare le aziende che magari hanno bisogno di piccoli investimenti per rientrare nel mercato.
Il caso della Calcestruzzi Belice
Emblematico è il caso della Calcestruzzi Belice, solo per citare uno dei casi più recenti ed eclatanti. Una società in buona salute che a Montevago, un piccolo centro dell’agrigentino, è in procinto di chiudere i battenti e mandare a casa 11 persone. Confiscata nel 2012 all’imprenditore del cemento Rosario Cascio, considerato prestanome del capo di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro, la società oggi è in mano all’Anbsc. Nei primi di gennaio gli 11 dipendenti hanno ricevuto un preavviso di licenziamento perchè il Tribunale di Sciacca aveva dichiarato il fallimento dell’impresa, a seguito di un ricorso presentato dall’Eni per un debito di 30 mila euro non pagato. Un debito alla portata dell’azienda che, seppur in crisi di liquidità, ha un fatturato superiore al milione di euro e diverse commesse in corso. L’azienda avrebbe dovuto far parte anche della rete del “Calcestruzzo della legalità” ma quello che per qualsiasi azienda privata di queste caratteristiche rappresenterebbe un problema assolutamente risolvibile, per un’azienda confiscata e gestita dallo Stato rischia di essere fatale. Adesso si attende la sentenza di appello dopo il reclamo presentato dall’Agenzia.
Il tabù della vendita dei beni confiscati
Alla luce della condizione in cui versano i beni confiscati è indubbia la necessità di riformare il sistema della gestione. Due sono le scuole di pensiero consolidate.
Da un lato c’è chi sostiene la tesi per cui è compito dello Stato recuperare e riutilizzare tutti i beni, mobili e immobili, sottratti faticosamente ai boss al fine di restituire alla collettività quello che le mafie le hanno tolto. I fautori di questo approccio escludono in modo categorico la vendita e invocano l’utilizzo delle risorse economiche confiscate alle mafie (denaro contante, rapporti bancari, titoli finanziari) e che confluiscono nel Fondo unico giustizia. Un tesoro di 3.7 miliardi di euro che rimane per la maggior parte, inspiegabilmente, inutilizzato.
Dall’altro, invece, c’è chi pensa che la gestione di una così numerosa quantità di beni rappresenti un compito troppo gravoso, oltre che estremamente complicato, per cui bisogna prendere in considerazione, almeno per alcune tipologie di beni, la possibilità di metterli sul mercato. Qualche giorno fa nel corso di un convegno che si è tenuto a Palermo era stato il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, a dire che bisogna sfatare il tabù della vendita. La discussione si protrae oramai da anni.
Nel frattempo il Codice antimafia è fermo da più di un anno in seconda lettura al Senato. Qui le forze politiche si stanno confrontando sul testo che raggruppa tutta la normativa antimafia disseminata nel nostro ordinamento e, allo stesso tempo, apporta delle modifiche legislative con l’obiettivo di rendere più incisiva la lotta alle mafie.
Una riforma urgente spesso considerata secondaria e che adesso deve pure fare i conti con l’instabilità politica di questi ultimi mesi. Riuscirà il codice antimafia, in questo clima di incertezza, a vedere la luce prima del termine della legislatura? Speriamo che non sia un’altra occasione perduta per mettere a sistema lo straordinario patrimonio tolto alle organizzazioni criminali, grazie ai sacrifici dei tanti servitori dello Stato che combattono le mafie, a chi per questo ha perso la vita e a chi ogni giorno si impegna per promuovere la legalità e lo sviluppo.