In un nostro recente articolo, avevamo lanciato l’ipotesi, riguardo alla possibile origine siciliana dei Bronzi di Riace. Tutto ciò non ha mancato di scatenare un acceso dibattito. Un quotidiano di Reggio Calabria ha replicato con un articolo dal titolo: “La Sicilia vorrebbe accaparrarsi i Bronzi di Riace e riscrivere la Storia”. Nel servizio si contrappone a quella siciliana l’ipotesi calabrese del noto numismatico Daniele Castrizio. Abbiamo così deciso di intervistare a tal proposito Anselmo Madeddu, autore dello studio che ha suscitato questa veemente reazione reggina.
“Sono entusiasta del fatto che finalmente si dibatta di una materia tanto affascinante. Riguardo alla ipotesi del professor Castrizio, che io stimo, si tratta di una delle tante ipotesi ad oggi esistenti, così come la mia. Personalmente ne conosco quattordici. E fino a quando qualcuno non troverà i loro nomi di battesimo incisi sul bronzo, nessuno potrà mai affermare di aver scritto la Storia! Ritengo che l’approccio giusto sia quello di sostenere con umiltà la propria ipotesi consentendo agli altri di dire serenamente la propria”.
A chi sostiene che lei è un medico e non un archeologo come risponde?
“Credo che a un medico da sempre studioso di archeologia e possessore di più di due neuroni sia consentito di esporre un proprio studio. Onestamente mi preoccuperebbe un po’ di più il contrario: un non medico che si avventuri in un intervento chirurgico”.
Alla sua ipotesi, il giornale calabrese oppone quella di Castrizio. Di cosa si tratta?
“Il professore Castrizio, insigne numismatico che – ripeto – io apprezzo, ritiene che si tratti delle statue di Eteocle e Polinice, che a loro volta avrebbero fatto parte di un gruppo di cinque, insieme a Giocasta, Creonte e Antigone. Un gruppo citato da Taziano nell’opera Contra Graecos, che compose dopo il 165 d.C.. Ma sui bronzi di Riace sono state trovate incrostazioni di ceramiche risalenti al III secolo a.C., pertanto, quando Taziano vide quell’opera a Roma nel 165 d.C., non vide certo i bronzi di Riace, perché questi giacevano sott’acqua già da quasi quattro secoli. La sua ipotesi, quindi non mi convince, ma questo non mi impedisce di rispettare comunque le idee altrui”.
Quali sono, invece, gli indizi dai quali lei è partito per elaborare la sua ipotesi siciliana?
“Sono molti e concordanti. Ad esempio i supporti per gli elmi presenti sui capi delle statue, che sono compatibili con elmi corinzi usati tra il 480 e il 460 a.C. nell’area dorica che faceva capo a Corinto e Siracusa. Oppure ancora la presenza della cuffia a ricciolo (kynê) sotto l’elmo corinzio del bronzo B, che identifica un re-condottiero, la cui somigliantissima immagine è presente in molte monete siracusane coniate all’epoca di Timoleonte. Di particolare suggestione è poi la posizione della lancia nel bronzo B, adagiata sul palmo della mano nella posizione di chi sta deponendo le armi”.
Perché il gesto di deporre la lancia presente nel bronzo B sarebbe così importante?
“Perché nella mia ipotesi il bronzo B di Riace rappresenterebbe la statua di Gelone in un famosissimo gruppo scultoreo del V secolo a.C., in cui il re-condottiero fu raffigurato proprio nell’atto di deporre la lancia e lo scudo. Quest’opera celebrava, appunto, Gelone nel momento in cui, all’indomani della vittoriosa battaglia di Imera, si presentò nudo nell’agorà, depose le armi e rimise il suo mandato al popolo. Un’opera notissima se è vero che ne parlano ben cinque scrittori: Diodoro Siculo, Polieno, Eliano, Plutarco e Dione Crisostomo. Da quest’ultimo sappiamo pure che il gruppo era formato da tre statue (e la presenza di un terzo bronzo trafugato a Riace è cosa ormai ben risaputa). E sempre da Dione sappiamo che era opera dello scultore Dionisio d’Argo, la città a cui riconduce peraltro l’analisi delle terre di cottura”.
E dunque cosa celebrava questo gruppo scultoreo di tre statue, così famoso allora?
“Probabilmente l’opera celebrava la potenza dei fratelli Dinomenidi (Gelone, Ierone e Polizelo), che furono i più prolifici committenti di capolavori in bronzo della loro epoca, ivi compreso il famoso Auriga di Delfi, in cui per fortuna la scritta dedicatoria ci svela che fu commissionato proprio dai Dinomendi. Si tratta di un’opera che peraltro presenta tante analogie stilistiche coi bronzi di Riace. E allora, se il celebre Auriga fu commissionato dalla Sicilia perché scandalizzarsi così tanto se altrettanto avvenne per i Bronzi di Riace?”.
Un’ultima curiosità, ci spieghi come le statue finirono dalla Sicilia a Riace.
“Le incrostazioni di ceramiche della fine del III sec. a.C. fanno ritenere che le statue affondarono in occasione dei trafugamenti operati dai romani nel 212 a.C. dopo la conquista di Siracusa. Secondo l’archeologo americano Ross Holloway, però, quelle opere furono pescate in acque siciliane e poi depositate dai trafficanti d’opere d’arte nei fondali di Riace per sfuggire ai controlli. Lo conferma il fatto che nessuna traccia di ceramiche, né di nave affondata è mai venuta alla luce a Riace, intorno ai bronzi”.
Interessante però questa risposta così accesa da parte della comunità calabrese
“Gli amici calabresi stiano tranquilli – afferma Madeddu – Nessuno vuol portare via i bronzi da Reggio, ma solo far luce su una paternità che molti indizi ormai riconducono alla nostra terra. Questa risposta passionale, però, mi diverte”.