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Come si fa in Italia a diventare docenti prima di diventar vecchi?

mercoledì 7 Giugno 2017

Come si fa in Italia a diventare docenti prima di diventar vecchi?

docenti scuolaLe agenzie di valutazione internazionali ci testimoniano che, tra i 36 paesi OCSE, il nostro è quello con i docenti più vecchi. In Italia, malgrado l’art.1 della Costituzione, l’accesso al lavoro è più un privilegio che un diritto. Per gli insegnanti, poi, una avventura travagliata, lunghissima, che dagli anni ’70 ha coinvolto centinaia di migliaia tra loro, prevalentemente siciliani, calabresi, campani, lucani.

Tra le tante ragioni di questa intricata vicenda, due le principali. La prima: al Sud, la scarsità di offerta di lavoro nell’impresa, convince molti laureati a scegliere di fare l’insegnante e perciò, dalle nostre parti, c’è una bella sproporzione tra domanda, tantissima, e offerta, pochissima.

 

La seconda questione è più difficile da spiegare a chi non ha mai lavorato nella scuola: roba da iniziati. Proveremo a chiarire. I posti da insegnanti, per definizione, non sono tutti uguali, si dividono in “posti di diritto” e “posti di fatto”. I primi sono posti vuoti senza un docente che li occupi, gli altri sono posti “ballerini”, che ci sono per un solo anno scolastico, perché il titolare di quel posto è in un’altra città o è distaccato all’Estero oppure sta facendo, per tre anni, un dottorato all’università o altro. Il fatto è che su un posto, che è libero solo provvisoriamente, non possiamo mettere un titolare e cioè un vincitore di concorso o chi si trasferisce dal Nord e, allora, ci mettiamo un supplente. Ma, dov’è l’inghippo? Presto detto: basta decidere con un atto ufficiale di quello che ancora molti chiamano Provveditore, che un posto di diritto è, invece, di fatto. Accade così, come per magia, che moltissimi insegnanti, invece di vincere una cattedra e passare di ruolo, restino supplenti. PadoanTra l’altro il famigerato “Provveditore”, che oggi si chiama, “Dirigente d’ambito”, ha la coscienza pulita; non è lui ad aver truccato le carte, ma il Ministero dell’Economia, che per ogni posto vero, deve garantire i fondi per pagare il nuovo insegnante. In sostanza, il numero dei posti che arriva alle scuole è già fissato, senza margini, da un accordo tra il ministro dell’Economia e quello dell’Istruzione e, tra i due, quello che ha maggior voce in capitolo è sicuramente il primo. Si capisce poi che, in tempi di vacche magre, Padoan e chi c’era prima di lui, hanno tirato la cinghia il più possibile. Così tanti, invece di aspettare a casa propria, da precari “a vita”, hanno fatto la valigia e il ruolo lo hanno trovato a mille chilometri da casa. Dopo un tempo più o meno lungo e tanti sacrifici, per sé e per le famiglie, alcuni sono tornati; altri si sono abituati e sono rimasti.

 

Docenti precariIn Italia poi, ci sono tredici anni e non dodici prima dell’Università; per la laurea vera servono cinque anni e non tre (come nella maggior parte dei paesi avanzati) e, da un po’, prima di fare il concorso, bisogna farne prima un altro, che si chiama TFA e ti dà l’abilitazione. Un vero percorso a ostacoli e chi ce la fa, alla fine, ha già i capelli grigi e spesso oscilla tra la rabbia e la depressione.

Certo tante immissioni in ruolo, ma solo dopo i tanti colpi di bacchetta dell’UE all’Italia, per aver tenuto centomila docenti nel precariato ben oltre il limite invalicabile dei tre anni.

Come mettere ordine a tutto questo? Con il decreto legislativo 35, naturalmente, che razionalizzerà le tantissime graduatorie di precari e di concorso, immetterà in ruolo chi ha diritto e riordinerà, finalmente i concorsi futuri in modo che non si faccia altro precariato e, magari, velocizzerà il percorso per diventare insegnante di scuola secondaria, per farcela prima di essere presi dall’artrite.

 

Magari. Certo, per fare il concorso nel 2018, non ci sarà bisogno di perdere un paio d’anni per l’abilitazione, ma, intanto, bisognerà dare prima qualche esame per guadagnarsi prima 24 crediti in Pedagogia, psicologia e affini. Poi il concorso, con prove scritte, colloquio, graduatoria. In questo paese, però, non ci si smentisce mai: per i vincitori un periodo di formazione di ben tre anni, il primo anno per una sorta di master di II livello. Sparita l’abilitazione, spunta infatti dal cilindro del legislatore, la specializzazione, poi due anni di tirocinio con tutor di scuola e di università e finalmente il contratto: nel frattempo sarà dura resistere tre anni, in una sede lontana da casa con una indennità presumibile di meno di metà dello stipendio.

Nel Decreto, poi, una serie di passaggi per addetti ai lavori, che risparmiamo al lettore e che dovrebbero esaudire chi ancora aspetta e sta in graduatoria da decenni. Ahimè, penso proprio che protesteranno tutti: chi vincerà il concorso e, da precario, aveva uno stipendio, mentre, da vincitore di concorso ne perderà la metà e non avrà i contributi INPS; chi ha conquistato il TFA e non ne ricaverà i vantaggi che si aspettava; i vincitori del concorso precedente, che non ce la faranno a rientrare nei posti messi a concorso.

Un “cahier de doléances”, ancora una volta in netto contrasto con i proclami ottimistici della 107, una legge con qualche merito, seppellito però da un’attuazione priva di un solido legame con la complessità della scuola italiana. Un solo pensiero gratificante: la scuola primaria e quella dell’infanzia, risparmiate dal decreto, riconoscenti, ringraziano.

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