Finora gli articoli della vostra Patti Holmes hanno avuto un fil rouge, quel “Tu chiamale se vuoi… evasioni” che, riprendendo la famosissima canzone di Lucio Battisti, avevano lo scopo di regalare ai lettori, in questo momento di pensieri appesantiti dalla realtà, attimi di leggerezza.
La declinazione di quest’ultimo, invece, vira sul “Tu chiamala se vuoi… commozione” e ha per protagonisti i medici e gli infermieri che, spendendosi in prima linea in questa guerra contro un nemico invisibile, in cui già tanti, troppi, sono caduti in battaglia, hanno lanciato l’hashtag #noirestiamoincorsia #voirestateacasa.
Ascoltando e leggendo le dichiarazioni di alcuni di loro la cosa che più colpisce è che non vogliono sentirsi chiamare “eroi” o “missionari“, ma professionisti che hanno studiato per svolgere questo importantissimo ruolo, fatto di rischi, gioie e dolori, perché vedere morire un paziente è una sconfitta che brucia sulla pelle e toglie il sonno, ve lo dice una il cui padre, che era medico di base a Vallelunga Pratameno, considerava i suoi assistiti amici, parenti, parte della sua vita e sprizzava gioia ogni qualvolta, la maggioranza per fortuna, riusciva ad essergli di utilità e grande amarezza quando, purtroppo, di fronte a qualcosa di più grande, che necessitava di un miracolo, si sentiva umanamente impotente.
A tal proposito viene in mente “La Cura” di Franco Battiato (che oggi compie 75 anni) che, giustamente, leggiamo pensando ad un amore, ma che, riflettendoci, ha un verso che potrebbe essere il manifesto dei medici: “E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te“.
Già proprio così, perché ognuno di noi può essere, per questa meravigliosa categoria di uomini e donne, una meravigliosa vittoria della vita sulla morte o una terribile sconfitta da parte della “signora con la falce” con cui, spesso, si trovano a combattere.
D’altronde nel testo moderno del giuramento d’Ippocrate, medico greco (460-375 a.C.) che chiedeva ai suoi allievi di impegnarsi solennemente davanti ad Apollo, dio della medicina, a visitare i malati e a prescrivere le cure con l’unico scopo di guarirli, si legge: “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro: di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni atto professionale; di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona non utilizzerò mai le mie conoscenze; di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica“.
IERI COME OGGI
Adesso, con un salto nel passato, vogliamo condurvi all’Estate del 1575 in cui a Palermo, colpita da un’epidemia di peste, diffusa secondo alcuni studiosi dal’’arrivo di navi e mercanti provenienti da Tunisi o da Alessandria d’Egitto, secondo altri, invece, dalle campagne circostanti, dove erano presenti diversi vivai, emerse la figura di Giovanni Filippo Ingrassia, tratteggiata in un bellissimo articolo del 2 giugno 2019 da Vincenzo Roberto Cassaro.
Nato a Regalbuto nel 1510, protomedico di Sicilia, carica prestigiosissima a cui erano legate funzioni relative al controllo dell’attività medica nel Regno, operò delle politiche sanitarie che permisero di mantenere il controllo della situazione in città e sconfiggere l’epidemia con un numero di morti , 3100 circa, relativamente basso rispetto alle stime dell’epoca.
Ma quali furono gli interventi da lui proposti? L’isolamento dei malati e l’imposizione della quarantena, visto la contagiosità della malattia; il divieto degli scambi commerciali con l’esterno, del raduno di folle in piazze, strade e luoghi pubblici, comprese le processioni. Il passato, quindi, che si fa presente, solo che allora chi contravveniva alle ordinanze era condannato, come si legge nell’articolo, perfino alla forca, mentre oggi chi non rispetta le ordinanze verrà punito, mi auguro con massimo rigore, con multe o detenzione. Cosa ci viene chiesto di così difficile? Di stare “spaparanzati” sul divano a leggere, guardare la televisione e a rigirarci i pollici. Costretti a un sacrificio? No, protetti da un privilegio rispetto a chi è costretto ad uscire ogni mattina e mettere a rischio la propria vita anche per chi, sprezzantemente, gioca non solo con la sua, di cui è padrone, ma con quella degli altri che non gli appartiene e di cui si erge a signore assoluto.
Bisognerebbe spedire negli ospedali chi continua a trasgredire, uscendo, ma, soprattutto, coloro i quali non credono alla gravità della situazione. Mi piacerebbe che costoro, che si credono virologi per aver passato cinque minuti su internet, definendola una semplice influenza, si ritrovassero a fare le pulizie, a portare i pasti ai malati, a rendersi utili. Così, se dovesse essere la bufala che credono, ne uscirebbero indenni potendolo gridare al mondo; altrimenti capirebbero a loro spese, come già la maggioranza di noi, di non trovarsi dentro un Truman Show orrorifico, ma nella vita vera in cui tutti possiamo essere colpiti sia fisicamente, che negli affetti, da questo Carognavirus che, ahinoi, è sia democratico che empatico, volendo socializzare con tutti.
Aiutiamoci e aiutiamo i medici e gli infermieri, restando a casa, a farlo morire di solitudine e in solitudine.