La COVID-19 non è una banale influenza, almeno non in tutti i soggetti. In alcuni di essi, per ragioni non ancora comprese, può trasformarsi in una malattia molto grave con un corteo di segni e sintomi riferibili ad autoimmunità, come già scritto sulle pagine di questo giornale (https://sanitainsicilia.it/gocce-anatomia-coronavirus-banale-influenza-unaggressione-autoimmune_408057/).
Ricercatori dell’Università di Palermo afferenti al gruppo di Francesco Cappello, in collaborazione con colleghi dell’Università di Catania capitanati da Cristoforo Pomara, hanno avuto modo di esaminare campioni di polmone provenienti da soggetti purtroppo deceduti per le forme più gravi di COVID-19 e hanno identificato non solo alcune alterazioni istologiche patognomoniche di questa malattia ma anche almeno due potenziali marker di malattia severa.
Questo lavoro è stato pubblicato pochi giorni fa su Cells, rivista del gruppo MDPI, oggi con 6.6 di fattore d’impatto.
Abbiamo chiesto al professore Cappello di sintetizzarci brevemente il lavoro: “Questo studio fa seguito ad altri nostri lavori sull’argomento attraverso i quali siamo stati i primi al mondo non solo ad ipotizzare ma anche a dimostrare, con solidi dati in silico, che alla base delle forme più gravi di COVID-19 vi sia il mimetismo molecolare tra proteine virali e proteine umane, le quali possono diventare – in particolari condizioni di stress cellulare di tipo fisico e chimico, quali ad esempio ipertensione e diabete – target della risposta immune contro il virus, quindi scatenando una vera e propria risposta autoimmune contro l’endotelio dei vasi. Il lavoro di oggi è la prima conferma tissutale che questo fenomeno non solo è possibile in vivo ma coinvolgerebbe delle proteine anti-stress che potrebbero diventare marker precoci di malattia severa“.
Per confermare questo dato, serviranno ulteriori studi che consentano di ricercare queste proteine antistress nel sangue nelle fasi iniziali di malattia, uno studio che stiamo già conducendo in collaborazione con colleghi americani, francesi e australiani e che speriamo ci dia presto dei risultati incoraggianti in tal senso.
Quali sono gli ulteriori studi che state conducendo sull’argomento?: “L’autoimmunità può riguardare non solo l’endotelio dei vasi ma anche il sistema nervoso. Mentre nel primo caso i soggetti che sopravvivono potrebbero recuperare i danni d’organo abbastanza rapidamente, grazie all’elevata capacità rigenerativa delle cellule dei vasi, se il danno autoimmune colpisce cellule del sistema nervoso (molto meno capace di rigenerare i suoi elementi cellulari) la sintomatologia post-COVID può essere molto lunga e fastidiosa, come già da noi descritto in un altro lavoro quest’anno (https://www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(21)00033-1/fulltext). E inoltre sembra che mentre i soggetti anziani e con comorbidità cardiovascolari e metaboliche siano più inclini al danno endoteliale, il danno nervoso riguardi – per ragioni ancora non comprese – soggetti più giovani e apparentemente sani. Abbiamo in corso quindi vari studi con colleghi clinici italiani per cercare di trovare delle risposte convincenti anche a questi quesiti“.
“La conoscenza dell’anatomia e dell’istologia normale e patologica è alla base di queste ricerche, e importantissimi quindi sono stati gli esami autoptici medico-legali, da noi caldamente auspicati durante il primo lockdown e che ci hanno consentito di poter studiare campioni preziosissimi di tessuti provenienti da organi irreparabilmente danneggiati da questa malattia nei quali sono rimasti immortalati numerosi indizi – molti dei quali ancora da svelare – che potranno realmente aiutare a comprendere cos’è avvenuto e perché in questi sfortunati soggetti“, conclude Cappello.