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Verso il 2050 con 132 milioni di casi

Demenze in crescita, Cottone: “Serve agire sui fattori modificabili e potenziare la riserva cognitiva” CLICCA PER IL VIDEO

martedì 25 Marzo 2025

Entro il 2030 i casi di demenza sono destinati ad aumentare a livello globale, con una previsione di 75 milioni di diagnosi, che saliranno a 132 milioni entro il 2050. Una significativa percentuale di questi casi, però, potrebbero essere prevenuti attraverso interventi mirati sui fattori di rischio modificabili.

“Numerosi studi scientifici recentemente hanno dimostrato che l’invecchiamento fisiologico varia tra soggetto a soggetto ed esistono quindi enormi differenze interindividuali nell’affrontare il carico patologico legato all’età. E quindi si parla oggi di resilienza cerebrale, di resilienza cognitiva. E un concetto innovativo è quello della riserva cognitiva. Ogni cervello possiede una sua riserva che determina le differenze nell’affrontare patologie come la demenza di Alzheimer“, spiega Salvo Cottone, direttore dell’UOC di neurologia dell’Arnas Civico di Palermo.

Gli studi suggeriscono che la riserva cognitiva può essere potenziata attraverso interventi multidimensionali. Possiamo migliorarla con un regime dietetico adeguato, attività motoria aerobica ed esercizi cognitivi. Oggi ci concentriamo molto su pazienti che riferiscono difficoltà di memoria o apprendimento, anche se ancora autosufficienti. In questi casi si parla di deficit cognitivo lieve”, prosegue.

“Il deficit cognitivo lieve (MCI, Mild Cognitive Impairment) interessa tra il 20% e il 40% dei soggetti oltre i 65 anni. Fortunatamente, non tutti i casi evolvono in una demenza conclamata. La probabilità di progressione varia tra il 18% e il 30%, ma possiamo intervenire su fattori di rischio modificabili come ipertensione, diabete, obesità e colesterolo. Anche la dieta mediterranea e l’attività fisica possono ridurre il rischio di evoluzione – sottolinea il neurologo -. Ma anche lo stress incide sul declino cognitivo. Infatti la correzione della depressione, il contrasto all’isolamento sociale e il trattamento dell’ipoacusia sono interventi cruciali per migliorare la qualità della vita del paziente”.

La diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative si avvale di biomarcatori affidabili, ma sorge un dilemma etico.

“Abbiamo recentemente implementato esami per il dosaggio liquorale della beta-amiloide e della proteina tau fosforilata, due indicatori chiave della neurodegenerazione. Inoltre, grazie alla PET con traccianti specifici possiamo individuare l’accumulo di amiloide nel cervello, un segno distintivo dell’Alzheimer -spiega Cottone -. D’altro canto sappiamo che la malattia biologica di Alzheimer può essere diagnosticata 10-15 anni prima dell’esordio dei sintomi, ma cosa cambia se non abbiamo ancora terapie in grado di modificarne il decorso? Quindi dobbiamo interrogarci sul valore di questa conoscenza per i pazienti e le loro famiglie”.

“Intanto, nuovi farmaci iniziano a emergere. Il lecanemab, un anticorpo monoclonale approvato dalla Food and Drug Administration, riduce l’accumulo di beta-amiloide nel cervello. Non sappiamo ancora quanto possa incidere sul rallentamento della malattia, ma è un primo passo. La ricerca si sta ora concentrando anche sulla proteina tau fosforilata, aprendo la strada a nuove opportunità terapeutiche – conclude Cottone -. Il futuro della lotta alle malattie neurodegenerative passa dalla diagnosi precoce, ma anche dalla capacità di agire prima che sia troppo tardi”.

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