Nega di essersi occupato di intercettazioni e disconosce la sigla apposta ai brogliacci di alcune conversazioni registrate. “Il mio lavoro non era quello di seguire le intercettazioni”, dice il poliziotto Antonino Santoro, sentito questa mattina come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta.
Imputati del reato di calunnia aggravata i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Secondo l’accusa avrebbero costruito a tavolino pentiti fasulli come Vincenzo Scarantino inducendoli, anche con minacce, a mentire e ad accusare dell’attentato persone innocenti. La falsa verità sull’eccidio è costato la condanna all’ergastolo a 8 persone, poi scagionate in fase di revisione grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Una serie di “non ricordo” quelli di Santoro che poi si è soffermato sul periodo in cui si trovava in servizio a San Bartolomeo a Mare come dove risiedeva Scarantino con la sua famiglia. “A San Bartolomeo a Mare – continua il teste che vigilava sulla sicurezza di Scarantino- quando non andavamo a fare la spesa per portarla alla sua famiglia prendevamo i bambini dalla scuola”.
“I suoi non ricordo sono troppi e le ricordo che tutt’ora lei è un assistente di polizia”, ha detto l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto, uno dei personaggi condannati sulla base delle accuse dei falsi pentiti ora parte civile, a Santoro nel corso del suo controesame.
Al teste sono state chieste una serie di precisazioni sulle intercettazioni delle conversazioni di Scarantino, sull’utilizzo del telefono da parte del falso pentito, sulla modalità in cui venivano registrate le chiamate. “A questo punto – ha detto l’avvocato Scozzola – chiedo che venga inviato alla Procura un verbale per la palese reticenza“.