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Il 10 marzo scorso 8 famiglie italiane hanno tragicamente perso un loro caro nell’incidente aereo del Boeing 737 Max – volo 302 della Ethiopian Airlines. In quel volo anche la Sicilia ha perso un grande archeologo di fama mondiale Sebastiano Tusa, che nella doppia veste di professionista e assessore regionale si stava recando dai suoi “fratelli africani”, come lui ripeteva sempre alla moglie Valeria Patrizia Li Vigni, perché sentiva il dovere morale di aiutarli.
Da quel giorno, per Valeria Li Vigni e gli altri familiari, l’unica cosa che contava realmente era la speranza di ricevere rassicurazioni del fatto che tutto ciò che poteva essere trovato sul sito della tragedia sarebbe stato raccolto e collezionato in maniera efficiente e tempestiva, affinché ciascuno potesse avere una tomba su cui piangere i propri cari.
Speranza, che dopo ogni telefonata ed e-mail inviata alle Unità preposte, venivano evase con scarse informazioni e costantemente contraddittorie. “Con mio grande sgomento– dichiara una sorella di una vittima che chiameremo Elena- mi è stato addirittura detto che era possibile e probabile che famiglie delle vittime, a una settimana dall’incidente, avessero già raccolto e portato via diversi oggetti dal sito, il che significava che le possibilità e probabilità di trovare resti e oggetti personali erano sempre più ridotte, se non addirittura limitate”.
Elena non accetta questo silenzio istituzionale, ed il 5 aprile scorso vola con il padre ad Addis Abeba, ma la situazione si presenta ostile, senza nessun supporto logistico decide di recarsi personalmente sul luogo dell’incidente imbattendosi in uno scenario che la lascia costernata e sgomenta.
Un sito che, sarebbe dovuto essere, presidiato ed adeguatamente recintato così come prevede il protocollo quando si è in una scena di un crimine, dove tutto deve essere analizzato esclusivamente da professionisti affinché nessuna prova venga inquinata, si è trasformato invece in un luogo in cui le persone entravano liberamente, indossando normali indumenti giornalieri, senza l’ausilio di attrezzature appropriate per salvaguardare la natura estremamente sensibile del luogo. Anzi molti elementi esterni al fatto si vedono nelle fotografie, come ad esempio cicce di sigarette o piatti di plastica, rimanenze delle pause pranzo.
Elena inizia a vagare tra i tanti oggetti ed effetti personali sparpagliati sul luogo dell’incidente, raccogli biglietti da visita, un libretto di vaccinazione e un’agenda e altro ancora. Nonostante ognuno di questi oggetti avesse nomi e cognomi chiaramente leggibili, questi erano stati lasciati incustoditi sulla nuda terra che a causa del clima iniziavano visibilmente a deteriorarsi.
Ma la cosa che lascia tutti senza parole è quando Elena e suo padre, trovano dei resti di ossa umane, che raccolte con delicatezza e rispetto furono consegnate a dei militari che nella vicina tenda, localizzata appena fuori dal luogo dell’incidente avrebbero dovuto inibire l’accesso sui luoghi.
“Quando abbiamo consegnato queste ossa-dichiara Elena- i militari quasi infastiditi li hanno avvolte in modo incurante e irresponsabile in un sacchetto di plastica preso dai rifiuti che si trovano per terra, tutto ciò ignorando gli standard e procedure minime che andrebbero applicate in una scena del crimine simile nella quale 157 persone hanno perso la vita”.
Il portavoce del Ministero dei Trasporti in Etiopia, Musie Yehyies, aveva dichiarato “Gli scavi per il momento sono terminati, poiché abbiamo al momento tutto quello di cui abbiamo bisogno. Il sito è stato chiuso e può essere rivisitato“.
“Questo conferma il fatto sconcertante – continua Elena vistosamente emozionata – che, nonostante il campo sia chiaramente disseminato di reperti e brandelli de corpi dilaniati, l’Etiopia non intende raccogliere, ciò che significa il mondo, per una famiglia in lutto, e che i resti di vite umane ed i loro oggetti personali, non sono assolutamente in cima alla lista delle loro priorità”.
Il presidente dell’organizzazione israeliana di volontariato per il salvataggio e il recupero, Yehuda Meshi-Zahav, ha dichiarato a Elena in una conversazione telefonica: “Siamo stati in Etiopia per cercare altri resti e oggetti delle vittime, ma abbiamo incontrato resistenza da parte delle autorità locali. Il sito è stato chiuso più volte alle iniziative di ricerca e al recupero, il che ci ha costretto a far leva sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il quale lo scorso venerdì ha chiamato il primo ministro Etiope per chiedere il permesso di entrare nuovamente nel luogo e riprendere così le ricerche”.
Anche lo Stato iraniano ha inviato una squadra di professionisti per le ricerche finalizzate ad individuare i loro due connazionali che si trovavano in quel volo.
“Al ritorno dal mio viaggio-conclude Elena-ho sollecitato ancora una volta alle mie controparti il bisogno di ricevere garanzie che ogni piccolo elemento sia resti umani che oggetti personali, siano individuati e ben conservati in modo sicuro come da protocollo. Ma purtroppo ad oggi, tristemente devo riscontrare che non solo non è arrivata nessuna conferma, ma si rafforzano i miei dubbi sulla possibilità di riprendere chissà quando la ricerca, con la tragica realtà che i resti dei nostri cari e i loro effetti rimangano incustoditi e trascurati sotto il suolo Africano”.
Dalle ultime informazioni che Elena ha ricevuto dall’Etiopia, afferma che lo Stato italiano non ha nessuna squadra che stia cercando i resti dei nostri otto italiani sui luoghi dell’impatto. Così come la Sicilia, che vanta uno Statuto speciale ed uno dei Parlamenti più antichi del mondo non ha inviato neppure un osservatore per controllare cosa realmente sta accadendo al suo assessore Sebastiano Tusa.