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Il respiro della cultura

Gaza canta ancora: l’arte come resistenza nel cuore del conflitto

venerdì 4 Luglio 2025
Welcome to Gaza

Gaza è sinonimo di tragedia per chi guarda da lontano, un nome pronunciato con pena, con rabbia, con impotenza. Ma in mezzo a questo racconto fatto di macerie, di numeri, di geopolitica e morti, c’è un altro respiro che resiste. È il respiro dell’arte. Di chi, sotto le bombe, continua a dipingere, a cantare, a suonare. Di chi racconta la propria quotidianità con un fumetto, con una danza, con un costume da clown. Di chi cuce storie sui tessuti, scrive poesie sul retro degli scontrini, costruisce archivi con le immagini strappate al buio.

Questo non è un reportage sui danni della guerra, ma un viaggio tra le forme della creatività che a Gaza non si arrendono. È un racconto corale, che attraversa il disegno, la musica, il teatro, il ricamo, lo spettacolo e la memoria digitale. È la cronaca di una resistenza culturale che non impugna armi, ma penne, nastri adesivi, colori, tasti di pianoforte.

Dietro ogni atto creativo c’è un gesto di sopravvivenza. Dietro ogni sorriso strappato a un bambino, c’è un mondo che prova a non affondare. E se Gaza continua a esistere, lo deve anche a questa rete di artisti, madri, giovani, volontari, visionari. Che ogni giorno si alzano per creare, per raccontare, per non dimenticare.

Questa è la raccolta e la testimonianza emotiva e narrativa del volto meno raccontato di Gaza. Non quello della distruzione, ma quello della dignità. Non quello della cronaca secca, ma quello del battito umano che si ostina a pulsare.

Perché finché ci sarà qualcuno che canta, che ride, che dipinge, Gaza non sarà vinta.

 

“Gaza canta ancora”

 

Un articolo narrativo e tematico che esplora le molteplici forme dell’arte nate — o rafforzatesi — durante gli ultimi mesi di conflitto nella Striscia di Gaza. Lontano dalle retoriche belliche e dalle sintesi geopolitiche, il pezzo si muove come un reportage emozionale, attraversando sette capitoli autonomi ma connessi, ognuno dedicato a una specifica espressione creativa: arti visive, musica, teatro, spettacolo clownesco, ricamo tessile, archiviazione digitale e infine una riflessione corale sul senso stesso dell’arte sotto assedio.

Storie, progetti e testimonianze reali, tratte da fonti verificate e pubblicazioni internazionali, per dare voce a chi, nel mezzo del dolore, continua a raccontarsi attraverso l’arte. Ogni capitolo si sofferma su iniziative specifiche: dai murales e fumetti prodotti nei rifugi, alle performance teatrali messe in scena tra le macerie; dalle composizioni musicali che nascono nei campi profughi, fino al paziente ricamo di madri e nonne che conservano la memoria attraverso ago e filo.

Per coinvolgere, emozionare, far sentire il lettore parte di un mondo che spesso ci sembra distante. Perché dietro ogni opera d’arte c’è una persona viva, che lotta per restare tale. E in un luogo dove tutto sembra voler ridurre l’essere umano a un numero, l’arte resta l’ultimo baluardo dell’identità, del legame, del respiro.

 

L’arte visiva su Gaza: Murales, illustrazioni e fumetti

Gaza, nelle immagini che arrivano, è spesso sinonimo di macerie. Eppure, tra le pietre frantumate, fiorisce un’arte visiva pulsante: murales su case distrutte, schizzi su scatole di aiuti, fumetti che raccontano storie non raccontate.

Un esempio potente è “Besieged Childhood”, un murale dipinto su una torre di Gaza City insieme all’artista Belal Khaled: raffigura una bambina con sciarpa, il volto triste e le mani avvinghiate alle sbarre di una prigione emotiva.

Gli artisti reagiscono alla mancanza di materiali con incredibile inventiva. Raed Issa, per esempio, usa le scatole di cibo come tele; impiega tè, caffè, ruggine come pigmenti. Le sue sculture in argilla — che riproducono bambini feriti — scatenano un mix di empatia terribile, perché la violenza diventa materia viva sotto le nostre dita. L’arte diventa una funzione terapeutica: documentare, testimoniare, preservare ricordi.

L’opera di Banksy – che ha realizzato murales e un video “Welcome to Gaza” nella zona tunnel – incarna l’irriverenza del linguaggio visivo. Una mano copre una bomba come fosse un gioco, o un gattino gioca con una bombola: paradossi che nullificano la narrazione default di Gaza come “solo vittime”, restituendo al conflitto una dimensione aspra ma umana.

 

ALCUNE DELLE OPERE DI BANSKY SU PALESTINA E GAZA

Ma non serve un nome noto per cogliere la forza di quest’arte. I giovani di Gaza, attraverso art therapy, dipingono muri nelle loro case e quartieri: occhi che dicono “io vedo”, bambini che scrivono “I see myself traveling the world” nei loro sogni, sulle porte di case ridotte a rovine. Doonia, una bambina di 10 anni, dice: “While I was holding the brush and painting all I felt was joy” — e quel “gioia” ritorna sui volti di tutta la comunità.

Parallelamente, i fumettisti e illustratori documentano la quotidianità: da Maisara Baroud, che con un disegno al giorno informa il mondo di cosa accade — un modo per dire “sono ancora vivo” — a progetti collettivi come quelli di Basel El Maqousi, Raed Issa, Majed Shala, presentati in esposizioni come “Under Fire” ad Amman.

Iniziative come la “Gaza Biennale” rappresentano un salto in avanti: artisti della Striscia inviano opere per essere esposte a livello globale, sfidando il blocco e la censura, affermando che Gaza non sarà cancellata. Fiere, musei e ambasciate diventano palcoscenici di resistenza visiva.

 

Musica e suono a Gaza: il ritmo della sopravvivenza e della guerra

A Gaza la musica non si ascolta soltanto, si attraversa. Il suono è parte del tessuto quotidiano: droni nel cielo, sirene, urla, silenzi improvvisi. Ma dentro questo rumore della guerra, c’è chi compone. Chi canta. Chi registra. Perché anche la musica, come il disegno, è un atto di resistenza.

Nei quartieri più colpiti, le voci dei rapper si levano come controcanto alla narrazione internazionale. Uno di loro è “MC Gaza”, pseudonimo di Ahmed Alnaouq, la cui voce graffiante racconta la realtà delle strade. I suoi versi sono fiumi di dolore e orgoglio: “Gaza is not just blood / it’s my mother singing while baking bread”. Queste rime attraversano YouTube e TikTok, dove diventano inni condivisi da giovani palestinesi in patria e in diaspora.

La musica tradizionale, invece, resiste in un’altra forma. Le zajal, i canti popolari palestinesi, tornano nelle piazze improvvisate, nelle tende, nei campi profughi. Qui, donne e anziani cantano la terra, i figli perduti, la speranza. Sono canzoni senza strumenti, fatte di voce, battito di mani e respiro. Eppure, quando le ascolti, sembrano bastare.

Alcuni artisti lavorano con il suono come memoria viva. Progetti come “Sound of Gaza” raccolgono campioni audio registrati in tempo reale: l’eco dei missili, il fruscio di una tenda, la voce di un bambino che ride. Questa materia viene poi montata in collage sonori, vere e proprie installazioni audio che raccontano la città assediata attraverso il suo paesaggio acustico.

La radio, forma antica ma ancora potentissima, è un’altra arma culturale. Alcune stazioni indipendenti palestinesi, come “Radio Al Hara”, trasmettono suoni dalla Palestina a tutto il mondo: non solo musica, ma anche poesia recitata, field recordings, storytelling. In un’intervista a The Guardian, uno dei fondatori raccontava: “Questa radio non è solo nostra, è un rifugio sonoro per tutti quelli che non possono gridare”.

Anche nei rifugi, nei sottoscala, nei cortili crivellati, si suona. Ragazzi con chitarre rotte, tastiere a pile, tamburelli artigianali. Le scuole distrutte diventano aule di musica improvvisata. I suoni si mescolano ai racconti, come se ogni nota fosse una parola non detta. E la canzone, allora, diventa preghiera laica.

La musica non cancella il dolore, ma lo rende attraversabile. È un gesto collettivo, un respiro comune, una pulsazione che dice: “Siamo vivi, malgrado tutto”.

 

Teatro e spettacolo a Gaza: palcoscenici sotto l’assedio

A Gaza il teatro si fa con poco: un telo, una cassetta rovesciata, una finestra diventata palco. Ma quel poco basta. Basta a trasformare una casa colpita in un luogo sacro di parola. Basta a far parlare chi da troppo tempo è silenziato.

Uno dei progetti più significativi è “Theatre for Everybody”, una compagnia fondata nel cuore della Striscia, che porta il teatro nei campi profughi, nei centri giovanili, nei cortili. Non recitano Shakespeare: raccontano la vita di ogni giorno. La fila per il pane, la notte passata a tremare, il fratello disperso. Non serve finzione: basta il vero.

Il teatro ad Ashtar Theatre, con sede a Ramallah ma attivo anche a Gaza, ha promosso progetti come “The Gaza Monologues”: 33 testimonianze scritte da adolescenti dopo l’offensiva del 2008-2009. Oggi quei testi, tradotti in decine di lingue, vengono letti in tutto il mondo: dagli Stati Uniti all’Indonesia. Una ragazza scrive: “Mi sono sentita piccola, come una candela accesa nel vento. Ma ho continuato a bruciare”.

Molti attori, registi e tecnici vivono tra mille difficoltà: teatri chiusi, censura, povertà. Ma non si fermano. Ci sono spettacoli messi in scena nei centri di accoglienza, in giardini pubblici. Bambini che recitano dietro una lavagna. Donne che raccontano fiabe come forma di teatro orale. A Gaza la recita non è evasione: è catarsi, è comunità.

Il pubblico è parte integrante della scena. Spesso si ride insieme, si piange insieme. Lo spettatore non è mai solo osservatore: è testimone, complice, fratello. E se manca la luce, si accendono le torce. Se manca lo spazio, si apre il cuore.

Lo spettacolo più vero, però, è quello della vita quotidiana. A volte un monologo nasce durante un’intervista, un dialogo diventa pièce davanti a una telecamera. La realtà è più potente di qualunque drammaturgia, e il teatro lo sa. Per questo lo porta in scena.

 

Il clown e il sorriso da portare in guerra — Il circo dell’umanità

È forse l’immagine più struggente di tutte: un uomo con un naso rosso, il volto dipinto, che fa capriole davanti a un gruppo di bambini seduti sulle macerie. Ridono. E mentre ridono, piangono anche gli adulti.

Il clown in guerra non è uno scherzo: è un atto radicale. “Clowns Without Borders”, un’organizzazione internazionale, ha lavorato più volte nella Striscia, portando spettacoli itineranti tra le rovine. Uno dei volontari racconta: “I bambini ci guardavano come se fossimo alieni. Ma poi uno ha cominciato a ridere, e tutti hanno seguito”.

Tra le presenze più costanti, c’è anche Marco Rodari, in arte Claun il Pimpa.Clown di professione, missionario di vocazione, da oltre quindici anni attraversa le zone più martoriate del mondo per regalare momenti di gioia ai bambini vittime dei conflitti.

Claun il Pimpa: il clown che cura le ferite invisibili della guerra con un sorriso di pace

Con l’associazione “Per far sorridere il cielo” porta giochi, bolle, piccoli spettacoli nei centri di accoglienza di Gaza. Il loro lavoro si muove tra le scuole e gli ospedali, cercando di restituire un frammento di infanzia a chi l’ha perduta troppo presto, con delicatezza, ascolto e sorrisi che sanno di casa.

Il sorriso non è una fuga. È un modo per sopravvivere. I bambini crescono troppo in fretta sotto le bombe. Ma in quei dieci minuti di spettacolo, possono essere solo questo: bambini.

A Gaza ci sono anche clown locali, giovani che si sono formati con tutorial su YouTube, o con qualche corso improvvisato. Usano ciò che trovano: scatole come cappelli, scope come bastoni magici. La magia sta tutta nel gesto.

Molti clown lavorano anche con psicologi e insegnanti. I loro spettacoli diventano terapia collettiva. Giocano, ma sanno esattamente cosa stanno facendo: smontano la paura, la frammentano in frammenti ridicoli, la rendono ridicola.

L’arte del clown a Gaza è anche un linguaggio silenzioso. Quando mancano le parole, resta il gesto. Una smorfia, una caduta goffa, un abbraccio esagerato. Il corpo parla, e tutti capiscono.

Non sono eroi. Non vogliono esserlo. Ma sono necessari. Portano luce dove regna il buio. E la loro missione, spesso, è più efficace di mille discorsi.

 

Ricamo, tessile e memoria di Gaza: le trame della resistenza

In un angolo della Striscia, sotto la luce tremolante di una lampadina a batteria, una donna infila il filo nel lago e comincia a ricamare. Lo fa con lentezza, con cura. Ogni punto è una parola non detta, una lacrima non versata. Il ricamo, a Gaza, non è un passatempo. È storia. È terra. È identità.

La tradizione del tatreez, il ricamo palestinese, risale a secoli fa. Ogni villaggio aveva il suo motivo, ogni donna la sua mano. I fili non erano solo decorazione: raccontavano matrimoni, lutti, stagioni, memorie. Oggi, in mezzo alla distruzione, molte donne riprendono ago e filo per non perdere se stesse.

A Deir al-Balah, nel cuore della Striscia, esiste un piccolo collettivo chiamato “Threads of Return”. Riuniscono donne sfollate, madri sole, anziane rimaste senza casa. Insieme, ricamano cuscini, borse, pezzi di stoffa che vengono poi venduti all’estero. Non è solo economia solidale. È terapia, condivisione, ricostruzione.

Le mani ricamano ciò che la bocca non può dire. Una donna, Umm Ahmad, racconta in un’intervista raccolta da Al Jazeera: “Ricamo la mia casa distrutta. Ricamo l’albero che non c’è più. Ricamo la chiave di mio padre, che non ha potuto tornare”.

I motivi antichi si mescolano a simboli nuovi. Cuori spezzati, aquiloni, tende. Le stoffe diventano cronache. Alcune artiste più giovani portano il tatreez sui muri, sui vestiti urbani, nei progetti digitali. Si crea una linea continua tra l’antico e il contemporaneo, tra la nonna e la nipote, tra la Palestina di ieri e quella che verrà.

Il ricamo è anche resistenza femminile. Un modo per dire: “Noi ci siamo, anche se nessuno ci vede”. In un mondo dominato dalla narrazione maschile del conflitto, queste donne raccontano una guerra diversa: fatta di attese, di silenzi, di mani che curano.

E poi c’è la bellezza. Perché in mezzo all’orrore, il gesto di rendere bello un tessuto, di ornare, di scegliere un colore caldo, è una dichiarazione potente. Non si vive di solo sopravvivere.

 

Archiviare Gaza: memoria digitale e social contro l’oblio

Nel silenzio che segue un’esplosione, qualcuno accende il telefono e scatta una foto. Oppure filma, con le mani tremanti. Oppure scrive: “Ancora vivo. Ci hanno colpito”. Quel gesto, apparentemente semplice, è oggi una delle forme più potenti di resistenza.

A Gaza si archivia tutto. Non per vanità, ma per urgenza. Perché ogni traccia potrebbe essere l’ultima. Da anni operano collettivi come “Visualizing Palestine o Gaza Diary”, che raccolgono testimonianze visive, mappe, timeline, interviste. Si costruisce così una memoria parallela, un archivio di ciò che potrebbe sparire.

Un lavoro simile lo fa “The Palestinian Archive”, con sede a Beirut ma in continuo dialogo con Gaza. Catalogano vecchie fotografie, lettere, diari. Scandiscono la vita di prima, la vita di adesso. Come a dire: siamo sempre stati qui.

Molto importante è anche il lavoro dei giornalisti locali, come Motaz Azaiza e Plestia Alaqad, che durante i bombardamenti hanno documentato la vita quotidiana a rischio della propria. I loro video, le loro storie su Instagram, hanno raggiunto milioni di persone in tutto il mondo. Raccontare è sopravvivere.

Ci sono poi piattaforme come “Eye on Palestine” che raccolgono in tempo reale contenuti da artisti, attivisti, cittadini comuni. Gli smartphone sono diventati archivi mobili. I social media, invece, sono il nuovo libro di storia.

Ma si fa anche archiviazione poetica. Alcuni scrittori raccolgono frasi di bambini, parole udite nei rifugi, sogni interrotti. C’è chi archivia i profumi, i rumori, le sensazioni. Chi prova a salvare la Gaza interiore, quella che nessuna mappa può registrare.

In un mondo che dimentica in fretta, archiviare Gaza significa gridare: “Non potete cancellarci”. Ogni file salvato, ogni post condiviso, ogni memoria registrata è una pietra in più nella casa della Palestina.

L’arte come battito del cuore

Gaza non è solo sangue. Non è solo dolore. Gaza è anche colori, suoni, risate. È arte che si ostina a nascere sotto le bombe. È una bambina che disegna la pace, un ragazzo che suona sotto le macerie, una donna che ricama la casa perduta.

L’arte a Gaza non è un lusso. È respiro. È gesto che salva. È linguaggio che resta quando tutto tace. È politica, testimonianza, memoria.

 

È il modo in cui una comunità racconta se stessa al mondo e si ricorda di essere ancora umana.

Ci sono artisti che non sanno se domani saranno vivi. Eppure, oggi, dipingono. Cantano. Recitano. Ridono. Archiviare queste storie è un dovere. Ma soprattutto, ascoltarle. Farsi attraversare. Perché nel raccontare Gaza attraverso l’arte, non si celebra solo il coraggio, anche la vita che continua, la dignità che resiste e l’amore che non cede all’odio.

Gaza è ferita. Ma canta ancora.

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