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“Il vescovo degradato”, una storia vera raccontata da Enzo Di Natali

martedì 28 Giugno 2022

Enzo Di Natali è un appassionato ricercatore capace di regalarci storie poco conosciute che riguardano soprattutto il mondo cattolico agrigentino, un mondo che, forse in maniera più spregiudicata rispetto a quanto avvenuto nel resto della Sicilia, ha registrato un suo eccezionale protagonismo soprattutto in politica.

Un mondo che ha avuto, peraltro, l’avventura di confrontarsi, talora a muso duro, con un ceto alto borghese fondamentalmente massone e anticlericale. Di Enzo Di Natali, ma pochi ne sono a conoscenza, è stata infatti la riscoperta della vicenda dell’attentato mafioso subito dal vescovo di Agrigento Giovan Battista Peruzzo, e che Andrea Camilleri, al quale ha consegnato la storia, ha poi riscritto nel suo “Le pecore e il pastore”; sua è ora la scoperta di questa storia di arroganza e sopraffazione praticamente sconosciuta, ch’aveva proposto allo stesso Camilleri perché ne facesse un’opera letteraria, ricevendone però questa volta un rifiuto, e che oggi lui stesso propone in forma romanzata.

“Il vescovo crocifisso da un gerarca fascista” – a mio modo di vedere un titolo troppo lungo e poco felice – è il romanzo su questo prelato, vescovo di Santa Romana Chiesa, che subisce, ingiustamente, l’onta della degradazione “a semplice prete”, in base ad accuse, di appartenenza alla massoneria montate da un corrotto gerarca fascista, che l’aveva in odio per essere stato richiamato a comportamenti più onesti, e da suore compiacenti. Appartenere alla massoneria considerata a quel tempo, la più feroce nemica della Chiesa, costituiva un’accusa gravissima per un cattolico, immaginiamoci per un vescovo.

Con grande partecipazione emotiva, l’autore, descrive la vita miseranda, al limite dell’indigenza, che questo prete è costretto a condurre, in obbedienza alle disposizioni della Congregazione dei vescovi, dopo essersi ritirato nel suo paese d’origine, un povero borgo di montagna dell’agrigentino. Una vita di stenti e l’ostilità di un avido arciprete, suo ex compagno di studi che ne aveva invidiato l’iniziale fortunata carriera, diventano per l’ex prelato, novello Giobbe, un modo per espiare ed essere così più vicino a quel Dio del quale, nonostante le disgrazie, continua a cantare le lodi.

La vicenda, che aveva preso avvio negli anni del pontificato di Pio IX, si conclude negli anni delle novità indotte da un papa rivoluzionario come Giovanni XXIII. Ed è proprio quest’ultimo il quale, dopo la confessione di una delle suore, lo riabilita ordinando la riconsegna delle insegne episcopali. Una riabilitazione che, tuttavia, per il vecchio prete ultraottantenne non costituisce momento di esultanza visto che a quella condizione di umiliato, peraltro quasi voluta visto che per tutto quel tempo si era chiuso in un silenzio incomprensibile rinunziando a difendersi dall’infamia, lo aveva reso a suo giudizio più aderente alla sua fede.

Sul piano critico, si tratta di un libro senza grandi pretese che richiama nello stile quei libri edificanti che, per noi giovani cattolici degli anni cinquanta-sessanta, si trovavano nelle sedi di Azione Cattolica e che leggevamo senza porci molte domande. Una considerazione a parte merita il ritmo imposto alla scrittura, un ritmo che vagamente ricorda il romanzo “Il prete scrive lettere d’amore” di Pietro Mazzamuto, che nonostante il pesante silenzio calato sullo stesso, continuo a considerare un piccolo capolavoro letterario.

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