È grazie allo storico palermitano Antonino Mongitore, canonico della Chiesa di Palermo, giudice sinodale, nonché consultore e qualificatore del Tribunale del Sant’Uffizio di Sicilia, che abbiamo notizia di un evento particolarmente suggestionante e di cui non si aveva conoscenza, che interessò Ficarra, suggestivo borgo dei Nebrodi in provincia di Messina, nella prima metà del Settecento. L’opera che ne parla, stampata in Palermo nel 1742, è Della Sicilia ricercata nelle cose più memorabili, nello specifico il Tomo Primo, che contiene quanto si è osservato di raro ne’ Viventi Razionali, negli Animali, e nel Cielo Siciliano.
Una violenta e paurosa grandinata si abbatté sul paese e sui centri vicini. Così leggiamo: “Apportò orrore la pioggia de’ grandini caduta a 4. Ottobre del 1729 nelle Terre della Ficarra, S. Angelo, Martini, Piraino, e altre vicine. Era la grandine della grandezza d’una ben grossa Noce, di materia durissima, e lucida; e per tutto il giro si mostrava acuminata, come una punta di rasojo. Ma quel, che apportò maraviglia, e terrore fu, che da una sua parte mostrava un viso bruttissimo, ma ben formato colla distinzione di fronte, occhi, naso, bocca e mento: con in cima alla fronte della destra, e sinistra parte due piccole corna della stessa materia della grandine: e per tanto vennero chiamate dagli Abitatori di quelle cōtrade, gli specchietti del Demonio. Le vigne tocche da questa grandine vennero molto danneggiate; poichè si osservarono non sol troncati i rami, grappoli dell’uva, ma anco il tralcio, e le frondi, come se fossero stati troncati da ben forbito coltello, o rasojo. Così fu attestato nella Terra della Ficarra dal Maestro Notajo Francesco Rizzo, e da altre persone fededegni al P.M. Salvatore Ruffo, dalle cui mani ebbi la relazione“.
Di questa impressionante grandinata, riportata alla luce dalla testimonianza interessante ma al contempo inquietante del cronista settecentesco si era perso del tutto il ricordo; si ignorava la conformazione dei grani ghiacciati, grossi come una noce e con inciso il viso demoniaco. Questo dettaglio del commento alla forma dei chicchi di grandine tradisce chiaramente un caso di pareidolia, lo stesso principio che porta la mente umana a identificare soggetti e figure nei fumi o nelle nuvole. Come spiegare la suggestione? La risposta è presto detta. In quel periodo erano in pochi a possedere conoscenza e sapere, per lo più i religiosi. Nel difetto della scienza, era del tutto naturale che l’ignoranza senza riflessione del popolino, avido della più crassa superstizione, potesse essere facilmente schiacciata ricorrendo all’elemento religioso per spiegare fatti straordinari. Capitava che dotti ed ecclesiastici formassero la convinzione popolare che tutti i malanni, povertà, mancanze di raccolte, malattie delle bestie, nevicate aspre o grandinate anche, fossero opera del diavolo, o che si dovessero riferire quantomeno alla collera di Dio, che così puniva il popolo che abbandonava la rettitudine dei costumi cristiani.
Se pensiamo che nell’Inferno dantesco i golosi, collocati nel terzo cerchio, sono sdraiati a terra e colpiti da una pioggia incessante mista ad acqua sporca, grandine e neve, e che gli affatturatori che entrassero in lega con il diavolo, per rendendogli omaggio, si identificassero con lui trasmutandosi in animali, suscitando uragani o grandinate, malattie e quant’altro, ci rendiamo conto di come il diavolo stesso, nella tradizione italiana, sia frequentemente associato alla grandine.
Si spiegherebbe così l’inquietante riconoscimento della presenza del volto del demonio sui grani di ghiaccio caduti a Ficarra e che tranciarono nelle campagne delle contrade rurali della zona, di netto come con un coltello, si legge nella cronaca, tralci, fronde e grappoli di vite, evidente richiamo al simbolo del sangue di Cristo. Nell’ottocentesca Storia naturale del diavolo del dottor Karsch, leggiamo addirittura il caso di una donna che per castigare un’amica che la aveva esclusa da un invito, suscitò una violenta grandinata con l’aiuto del diavolo, che la condusse su un monte e la fece urinare in un fosso, dopodiché l’urina si elevò in vapori che si trasformarono in grandine. Chiari risultano a questo punto i motivi per cui di questa storia nessuno a Ficarra e nei paesi del circondario seppe mai nulla.