Su 135 assessori totali dei sedici principali comuni dell’Isola (i 9 capoluoghi di provincia e le altre 6 città che superano i 50.000 abitanti), solo 26 sono donne. Poco meno del 20%. I numeri non mentono. E questo è il racconto che viene fuori dai dati sulla presenza di genere nelle principali Giunte dell’Isola. La redazione de ilSicilia.it ha effettuato una statistica attraverso i portali online delle Amministrazioni Comunali. Cifre che si muovono nella stessa direzione dei dati elettorali delle ultime elezioni regionali. Nella tornata del 2022, le elettrici siciliane non hanno votato le candidate donne a Sala d’Ercole. Ma anche dove è la politica a decidere non va di certo meglio, perfino dove il segno delle coalizioni a sostegno dei sindaci pende a sinistra
La divisione degli assessori nei principali comuni siciliani
Come mostra il grafico realizzato dalla nostra redazione, su 135 assessori complessivi nelle 16 città più grandi della Sicilia, ben 109 sono uomini, solo 26 donne. La percentuale di presenza di genere femminile si attesta al 19%, meno della metà del limite imposto dalla normativa nazionale. Con riguardo ai capoluoghi di Provincia, solo 14 assessori su 95 sono donne: 2 a Palermo (Brigida Alaimo e Rosi Pennino), 1 a Catania (Viviana Lombardo), 2 a Messina (Alessandra Calafiore e Liana Cannata), 1 ad Agrigento (Patrizia Lisci), 1 a Trapani (Rosaria D’Alì), 2 a Enna (Rosalinda Campanile e Gaetana Palermo), 1 a Siracusa (Teresella Celesti), 2 a Ragusa (Giovanna Licitra e Raimonda Salamone), 2 a Caltanissetta (Giovanna Calandra e Matilde Falcone).
La città che vede il maggior numero di assessori donne è Acireale, dove governa una coalizione di centrodestra. Su 7 assessori della Giunta, 3 sono donne. Fra i primi sedici comuni dell’Isola è l’unico dato in linea con i vincoli della rappresentanza di genere a livello nazionale. Il dato più basso, in termini di percentuale, è quello del comune di Catania. Il capoluogo etneo, guidato da Enrico Trantino, ha solo un assessore donna su undici complessivi (9%). Non va meglio nei comuni di marca centrista o civica. Messina e Siracusa si aggirano intorno all’11%, Vittoria e Bagheria arrivano al 14%, mentre Enna supera di poco il 20%. E neanche dove governa il centrosinistra i dati migliorano di molto. Gela si attesa ad una presenza di genere del 25%, mentre Trapani addirittura si allinea con gli altri capoluoghi di provincia (11%). Un dato che fa riflettere, soprattutto in un periodo nel quale il ddl per tornare all’elezione diretta delle Province è stato allineato proprio alla sopracitata soglia del 40% per la rappresentanza di genere.
Perché la politica non sceglie le donne?
Insomma, anche quando la politica è a scegliere, c’è una scarsa tendenza a ricorrere a profili femminili. Si ripropone quindi la domanda posta già in sede di analisi del voto delle scorse elezioni regionali. Perché la politica non seleziona volti femminili per i ruoli apicali nella pubblica amministrazione? I numeri sono giudici insindacabili, ma è altrettanto vero che da soli non bastano a dare una risposta. E come già detto in altre sede, non può essere un giornalista a dare risposte a temi complessi come questi. Di spiegazioni ce ne possono essere tante. E quasi sempre dipendono dal punto di vista di chi le propone. Fare una ricostruzione oggettiva, quindi, appare complicato quanto il problema posto. Soprattutto quando è la politica a decidere. Le nomine sono figlie del momento, degli equilibri di ogni compagine politica. Molto spesso sono frutto di percorsi interni, di lotte fra correnti, di alleanze o della necessità di far fronte alle richieste di partner di coalizione.
Purtroppo, molto spesso, la competenza non è il primo criterio con cui la politica sceglie. Di qualunque colore sia. In questa sede, vale lo stesso discorso fatto per la formazione delle liste. L’esperienza politica incide sicuramente nelle scelte dei partiti. Anche di quelli che fanno della parità di genere una bandiera elettorale. Il curriculum fa peso, così come l’esperienza della macchina burocratica. Si preferisce quindi fare affidamento all’usato sicuro piuttosto che ad una figura nuova da formare. Ma come mai questo succede anche in quelle compagini in cui la parità di genere è un punto focale dei programmi elettorali? Questo è davvero complicato da capire. Ma a questo punto, la domanda posta per l’analisi elettorale torna anche in quella politica: ha senso imporre una quota di donne obbligatoria in politica quando sono le stesse compagini politiche a non scegliere le donne?