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Lucrezia Lombardo, scrittrice, poeta, docente di filosofia e storia, si racconta | INTERVISTA

sabato 5 Agosto 2023
Lombardo Lucrezia

«Il poeta vero oggi è morto e con lui la poesia autentica. Non essendoci più poesia nel mondo tecnico e tecnologico odierno, non v’è neppure più il poeta che incarnava il ruolo di vate. Eppure, dobbiamo ringraziare questa morte perché, l’idea che il poeta fosse un eletto, ha prodotto deliri, che hanno poi sostenuto ideologie totalitarie.» Lucrezia Lombardo

Lombardo Lucrezia

Ciao Lucrezia, benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori che volessero sapere di te quale scrittrice, poeta e docente di filosofia e storia in un liceo della tua città?

Grazie a te, e a voi tutti, per questa preziosa opportunità.

Vorrei presentarmi, semplicemente, con l’appellativo di “libera pensatrice”, credo infatti che, al di là dei titoli, ciò che conta, oggi in modo particolare, sia l’esercizio di una capacità critica (il pensiero, appunto) che consenta di analizzare e decostruire il presente e la sua complessità.  Con l’espressione  “libera pensatrice” voglio altresì fare riferimento alla scelta che, da tempo, porto avanti: quella di preservare e custodire, come un bene che non ha prezzo, la mia libertà di pensiero ed espressione. Una libertà che, per esser davvero tale, necessita di non scendere a compromessi e di non avere bandiere da sventolare, tessere da esibire o appartenenze di cui dichiararsi orgogliosi. Del resto è già molto se ciascuno di noi può dirisi, provvisoriamente e parzialmente, soddisfatto di quel pò di evoluzione che ha raggiunto, e che resta comunque un cammino che dura l’intera vita. Tuttavia, ciò che elencavi nella domanda, è corretto: sono una scrittrice -se così possiamo dire- poiché ho delle pubblicazioni alle spalle, sia di tipo saggistico, che narrativo e poetico, e sono un’insegnante, lavoro che amo, soprattutto perché richiede un atteggiamento di perenne revisione di se stessi secondo una logica di continua crescita, nella quale, in modo ermeneutico, sono coinvolti sia il docente, che gli alunni.

Chi è invece Lucrezia Donna al di là della sua passione per la scrittura, per la letteratura, per la poesia e la lettura? Cosa puoi raccontarci di te e della tua quotidianità?

Questa domanda è molto interessante, perché mette in luce le plurali personalità che abitano ciascuno di noi e che, via via, indossiamo, come già aveva compreso Pirandello, in modo mirabile. La mia esistenza e la mia quotidianità, forse per fortuna, si discostano ben poco dai miei libri e dal mio lavoro di ricerca, nella misura in cui la scrittura è un prolungamento del mio modo di vivere. Non v’è un discostamento radicale tra me e la produzione che porto avanti, al contrario, la scrittura incrementa la mia esistenza, mi aiuta a comprenderla meglio, e viceversa. Per tale ragione, e grazie alla coerenza che ricerco, ho potuto dare alle stampe anche testi “scomodi” -come il libro “Due saggi dirompenti” (Divergenze 2022)- nei quali ho scelto di non addolcire il messaggio che intendevo trasmettere: non mi sono preoccupata, cioè, di essere “politicamente corretta” e accettata, bensì di riuscire a compiere un’azione che fosse, il più possibile, orientata al bene, ovvero alla voce morale che mi chiedeva di avere la massima onestà intellettuale. La scrittura, e l’arte in genere, sono difatti azioni, poiché generano mondi e riescono a ridefinire le coordinate del reale, delle relazioni reciproche e della percezione.

La letteratura, dunque, è finzione, nella misura in cui si muove in un metaverso e impiega un metalinguaggio, ma è al contempo realtà, e determina importanti ricadute pratiche, se è frutto di un percorso esistenziale. Credo che i maggiori pensatori di tutti i tempi -i filosofi Hannah Arendt e Marx, lo scrittore Dostoevskij e il poeta Brodskij, solo per fare alcuni esempi- siano riusciti a dare forma a teorie e opere davvero rivoluzionari, solo in quanto avevano alle spalle un vissuto autentico e che ha richiesto loro di crescere, di scomodarsi, di non fermarsi; il mio spirito è un pò il medesimo e guida sia la mia quotidianità, che la mia maniera di concepire la scrittura.

Qual è il tuo percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi nel vestire i panni di scrittrice, poeta e docente di filosofia e storia?

Il mio percorso non è stato lineare e ha subito rotture e cambiamenti, unitamente alla necessità di fare fronte a imprevisti di vario tipo. Questa dinamicità è altresì l’essenza della vita e la palestra nella quale ci troviamo a cresce e ad apprendere. Il percorso che ho alle spalle, ha tuttavia privilegiato le discipline umanistiche, alle quali mi sono sempre sentita affine, sebbene amassi, ai tempi del liceo e poi all’università, anche le materie scientifiche . Dopo la maturità classica -periodo in cui ho apprezzato particolarmente la letteratura greca, la filosofia e la matematica- ho cominciato a studiare Giurisprudenza, facoltà che non mi si confaceva, perché la mia mente si sentiva castrata e provava un’impellente d’indagare i principi primi delle cose e di quell’arbitrio che è all’origine stessa del diritto. Tale propensione verso la speculazione e il vivo interesse per la comprensione dell’animo umano e della mente umana, oltreché dei presupposti teorici che stanno alla base del sapere, mi hanno spinto a cambiare strada e così mi sono iscritta alla facoltà di Scienze filosofiche, dove ho conseguito la laurea specialistica in quattro anni, con l’anticipo di un anno. Mi sono dedicata quindi alla filosofia teoretica -un ambito speculativo e creativo, ma anche analitico-, materia su cui ho discusso una tesi intitolata “La corporeità tra scienze e biopotere: un’analisi fenomenologica”. Il lavoro analizzava il complesso problema del rapporto mente/corpo, dalle origini, sino ai giorni nostri e in relazione alla fenomenologia di Husserl. Dalla tesi e dal mio lavoro successivo di ricerca, durato anni, è poi nato il libro “Due saggi dirompenti”.

Dopo la laurea e un dottorato in filosofia vinto, ho viaggiato e conseguito vari master (uno preparatorio alla carriera diplomatica e l’altro in gestione dei beni culturali, grazie al quale ho lavorato -e tutt’ora lavoro- come curatrice d’arte), dedicandomi al giornalismo e collaborando per varie testate, sino alla scelta d’insegnare. Decisione che, tuttavia, avevo già  maturato in cuore sin dagli anni del liceo.

Come nasce la tua passione per scrittura, per la poesia e per i libri? Chi sono stati i tuoi maestri e quali gli autori che da questo punto di vista ti hanno segnata e insegnato ad amare i libri, le storie da scrivere e raccontare, la lettura e la scrittura?

La passione per la scrittura e per le storie è nata, probabilmente, quando, da bambina, mia madre mi raccontava le fiabe per farmi addormentare. Io e mia sorella l’ascoltavamo incantate. Ho scoperto, crescendo, che la maggior parte di quei racconti erano inventati da mia mamma, che, con la sua fantasia, era riuscita a farci viaggiare e a farci immergere in mondi indimenticabili. È nato così, anche in me, il desiderio d’inventare storie, che riportassero la meraviglia nel cuore delle persone e che riaccendessero la vividezza dell’infanzia in un presente spesso triste. Non si trattava, però, della ricerca di una via di fuga del reale, bensì di una volontà di valorizzazione di esso. Crescendo, mia madre ha continuato a raccontarmi storie e a suggerirmi letture, finché mi ha passato i suoi libri più cari, tra essi -lo ricordo perfettamente- la silloge “Ossi di seppia” di Eugenio Montale, libro al quale lei aveva dedicato la tesi di laurea, da traduttrice dal francese qual era.

La lettura di Montale mi ha totalmente folgorato da spalancare in me l’universo mistico della poesia, ovvero, della parola che diventa creazione, allorché riesce a ricongiungere l’uomo con quel sentire di compassione che, troppo spesso, giace sepolto.

La scuola, invece, non mi ha aiutata ad amare la letteratura, al contrario, mi ha fatto vivere, sin dai tempi delle elementari, un profondo senso di frustrazione: ero una bambina timida e non compresa dai vari insegnanti. L’irreggimentazione scolastica ha tentato di spegnere la mia fantasia e il mio amore per lo studio, ma, per fortuna, non c’è riuscita e, proprio allora, ho cominciato a scrivere poesia. Nei versi canalizzavo, da prima, la mia rabbia e poi, con l’andare del tempo, vi ho cercato la mia via, il mio punto di vista sul reale, fatto, in gran parte, da interrogativi.

Tu Lucrezia hai una produzione letteraria, tra libri e saggi, davvero impressionante! E per questo ti faccio i miei complimenti. Nel solo 2023 (e ancora l’anno non è finito!) hai pubblicato tre libri: “Una vita di lampo: Portraits de poètes”, “Il processo artificiale. un ragionevole dubbio sugli algoritmi in tribunale”, “Iasomia indiană. Il gelsomino indiano”. Come nascono questi tre libri in particolare (più avanti parleremo degli altri), qual è l’ispirazione che li ha generati, quale il messaggio che vuoi che arrivi al lettore, quale le conoscenze, le storie e le emozioni che ci racconti senza ovviamente fare spoiler?

Tengo, anzitutto, a fare una precisazione: il libro “Il processo artificiale. un ragionevole dubbio sugli algoritmi in tribunale” (Divergenze 2023) non è mio, ma di Mariangela Miceli, e di esso sono stata curatrice. Gli altri due testi che annoveravi, sono invece i libri che ho pubblicato nel 2023 e, all’opera “Una vita di lampo”, lavoravo già da tempo, nello specifico, da quando è iniziata la mia collaborazione con la rivista letteraria italo-francese “La Bibliothèque italienne”, per la quale curo tutt’ora la rubrica relativa alla poesia italiana contemporanea tradotta in lingua francese.

Assieme alla rivisita è nata, perciò, l’idea di raccogliere i saggi che, negli anni, avevo dedicato ad alcuni dei maggiori poeti italiani (da Saba, a Montale, a Luzi, ad Antonia Pozzi, sino a Fortini, Cproni, Sereni, Pasolini e altri) e che erano stati pubblicati in lingua francese su La Bibliothèque. Ogni saggio è stato inoltre accompagnato da un ritratto d’autore, eseguito da vari artisti e illustratori internazionali, dando così forma a un libro multidisciplinare, che impiega l’arte a trecentosessanta gradi, unendo il linguaggio delle parole e quello per immagini.

“Iasomia indiană. Il gelsomino indiano”, pubblicato dalla casa editrice romena Cosmopoli (2023) è nato invece su invito del poeta e amico Mauro Macario ed è una raccolta di versi, scritti negli ultimi due anni e frutto di un periodo personale assai duro, nel quale ho dovuto fronteggiare, assieme ai miei cari, la malattia di mio padre -ora stabilizzatasi- e la morte di mio zio. La necessità di non cedere al dolore, sebbene in esso fossi immersa, mi ha spinto a sublimare il mio stato d’animo -e la ricerca di un nuovo senso- nei versi, il cui tono non è oscuro, né pessimistico. Al contrario, sorprendendomi io stessa, la ricerca condotta in questi anni, ha dato forma a componimenti da cui traspare l’apertura verso una dimensione-altra, di cui non ho voluto fornire alcuna definizione, ma che è costituita dall’innata spinta dell’essere umano a rialzarsi dalle cadute, anche laddove il mondo pretenderebbe di schiacciarci in modo definitivo. Quest’apertura, ha cui ho cercato di dare voce dopo il travaglio del negativo, è il bisogno di speranza e progettualità che ci segna e, grazie al quale, probabilmente, la specie umana non si è ancora estinta, nonostante le devastazioni e l’autodistruzione che ha messo in atto.

Tu, Lucrezia, come abbiamo detto sopra, hai scritto tanti altri libri che i nostri lettori potranno trovare elencati alla fine di questa intervista. Ci parli di queste opere brevemente? Quali sono, come sono nate, quale il messaggio che contengono? Insomma, raccontaci delle tua prolifica e interessante attività letteraria, sia poetica che saggistica che dei racconti e romanzi.

Ogni opera che ho scritto, si lega ad uno specifico periodo della vita. Nasco come poeta, perché la mia natura propende per una scrittura breve, intuitiva, per immagini, versificata. Tuttavia, negli anni, ho sentito la necessità di sperimentare anche forme narrative e l’ho fatto attraverso racconti brevi, saggi, e un romanzo. Per quel che concerne la poesia -ho alle spalle nove sillogi e ne uscirà un’altra nei prossimi mesi con Controluna edizioni (Gruppo Elliot-Castelvecchi), intitolata “L’approdo dei sogni- ho esordito con la raccolta “La Visita” (L’Erudita 2017), il cui tema centrale era l’impiego del linguaggio dei versi come solo in grado di cogliere “la verità delle cose”, senza strumentalizzarle o incasellarle nella logica razionale classificante. La visita è appunto l’atteggiamento di chi sta a guardare, di chi retrocede dalle pretese e lascia che sia la vita stessa a presentarsi, con suo carico di suoi eventi, e a richiedere ascolto. Uno dei topos della mia ricerca è dunque costituito dalla sperimentazione di un linguaggio che possa, il più possibile, farsi a-egoico, sganciato dall’io dominante e pilotante. Un linguaggio -appunto- di ascolto, fenomenologico. Su questa linea sono nate le altre sillogi, alcune delle quali hanno un aspetto di “poesia narrativa”, ovvero, in esse, la parola si fa intenzionalmente descrittiva, mosso dalla volontà di riancorarla al reale, epurando il linguaggio dalle astrattizzazioni oggi dominanti in ogni arte. Per quel che concerne la saggistica, ho esordito con “L’Alunno. Tutto ciò che la scuola non ha il coraggio di rivelare” (Divergenze 2019), un testo di filosofia dell’educazione, nel quale raccontavo la mia esperienza da docente catapultata in una scuola difficile e che, tuttavia, mi ha dato modo di riflettere approfonditamente sul tema del disagio giovanile, oltre che sulla pratica educativa e sul rapporto tra maestro e discepolo. Un rapporto che deve -a mio parere- basarsi sulla testimonianza viva del primo e su di una continua crescita reciproca, in un atteggiamento di umiltà. A questo primo saggio è seguito “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo cosienziale”, pubblicato dalla medesima casa editrice de “L’Alunno” e dedicato alla critica dell’odierno paradigma biopolitico e dell’emergenza, oltre che alla questione della coscienza, in quanto strumento di resistenza individuale alle ingerenze di un potere sempre più omnipervasivo. Infine ho sperimentato lo stile propriamente narrativo con il romanzo “Kinder” (Augh! 2020) dedicato alle conseguenze della guerra nei Balcani e frutto dei miei ripetuti viaggi in quell’area, dai quali è emerso tutto il dolore di una terra che porta ancora addosso le ferite di un conflitto etnico, che ha portato al potere le mafie e ha letteralmente mutilato l’anima -oltre ai corpi- di un’intera generazione. Qui lo stile si fa inevitabilmente crudo e teso a smascherare la verità taciuta dai mezzi di comunicazione e dagli altri centri di potere, su di una guerra recente e su di una terra-polveriera, che è il riflesso, in piccolo, del mondo odierno e di ciò che sta avvenendo su scala globale. Ho poi pubblicato due raccolte di racconti, la prima delle quali, “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro 2020) era dedicata al tema delle diseguaglianze di genere e percorreva le storie di donne provenienti da contesti socio-culturali ed economici differenti, ma accomunate dalla volontà di trasformare il loro dolore in un nuovo inizio. Questo libro mi ha così permesso di partecipare a importanti iniziative, in collaborazione con Enti, scuole e associazioni, allo scopo di approfondire temi ancora oggi spinosi, quali le diseguaglianze di genere e la violenza di genere, nelle sue modalità classiche e in quelle nuove.

Chi sono i destinatari che hai immaginato mentre li scrivevi? A chi sono indirizzati i tuoi libri?

Questa tua domanda tocca una questione più profonda: il perché scrivo. Mi sono spesso interrogata a tale riguardo e posso dirti che, quando scrivo, non penso al lettore. Non voglio sembrare -in modo peraltro contraddittorio- egocentrica, né egoista, ma ciò che mi preme sottolineare è che, chi scrive, lo fa essenzialmente, e anzitutto, per se stesso, ovvero per un’impellente spinta che lo muove a creare e perché in tale forma espressiva cerca un senso (il senso -si noti- oltrepassa il significato) . Ogni volta che mi metto al pc, o che mi accingo ad appuntare qualcosa sul mio taccuino, lo faccio perché ritengo di avere un’immagine o un’idea che, a mio parere, meritano di essere esternate. È altresì ovvio che, nella misura in cui un’idea assume un aspetto materiale facendosi pagina scritta e opera, essa è messa in comune con gli altri e a disposizione degli altri, cessando di appartenere a chi l’ha prodotta. Tuttavia, quel che più conta quando scrivo, è il mio livello di soddisfazione nei confronti dell’opera che ho tentato di partorire: la severità con se stessi e la capacità di conservare uno spirito autocritico sono dunque essenziali, poiché da essi dipende la possibilità di fare di quello specifico linguaggio non un carcere, o qualcosa che degrada e che finisce con il rendere chi lo produce “una persona peggiore”, bensì qualcosa che aiuti l’evoluzione, nell’ottica di un miglioramento interiore e relazionale costanti.

Una domanda difficile, Lucrezia: perché i nostri lettori dovrebbero comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online per acquistarli.

Partiamo dal presupposto che sarei onorata, se i miei libri avessero anche un solo lettore. Se poi quei lettori crescessero e diventassero cento, o persino di più, non solo sarei onorata, ma addirittura privilegiata. La cosa più bella è infatti sapere che vi è qualcuno che, dai miei libri, porta con sé qualcosa. Tuttavia, per venire alla tua domanda, i miei lettori dovrebbero comprare i miei libri perché, invece di trovare in essi le solite storie che trattano di storie drammatiche, di affetti segnati da profonde ferite e crisi, da morali spicciole e banali e che, essenzialmente, sono letture che non mettono davvero in crisi chi in esse s’imbatte, potrebbero trovare nelle mie pagine un’analisi senza compromessi del reale e della nostra attuale condizione esistenziale, perché, quando scrivo, cerco di espormi in prima persona e analizzare, senza paura, problematiche impellenti e che vengono rimosse dal mainstream, come il disagio giovanile o la crisi del sistema educativo e perché, poeticamente, nei miei versi, quei lettori non troveranno mai né il pateticismo, né incomprensibili e autoreferenziali sperimentalismi. Infine direi a qui lettori di comprare i miei libri perché, così facendo, sosterrebbero una giovane autrice, che non fa parte di lobby, di appartenenze, o di partiti politici e che non rappresenta altro che se stessa e il proprio pensiero; sosterrebbero altresì una giovane autrice che ha fatto con le proprie forze, senza avere le spalle coperte da un padre introdotto, o da una famiglia agiata e introdotta che la aiutasse. Tengo poi a concludere, sottolineando, ad ogni modo, che ciascun lettore deve sentirsi libero di acquistare, come no, i miei libri, allo stesso modo in cui, in piena libertà, possono apprezzare o meno ciò che ho dichiarato in questa nostra chiacchierata. Se i lettori saranno in qualche modo incuriositi da questa intervista, o dal resto del materiale che via via ho prodotto, si receranno in libreria autonomamente e si documenteranno sul mio lavoro, aldilà della pubblicità che io stessa posso farmi. Questo metodo di auto-promozione, di auto-pubblicizzazione -per quanto inevitabile nel contesto odierno, in cui non domina la qualità ma il mercato- è qualcosa che non mi appartiene e che fa parte del mondo imprenditoriale (è il motto dei tanto osannati “imprenditori di se stessi”) e, da questo mondo, sinceramente, non sono mai stata attratta.

C’è qualcuno che vuoi ringraziare che ti ha aiutato a realizzare le tue opere letterarie? Se sì, chi sono queste persone e perché le ringrazi pubblicamente?

Vorrei ringraziare tutti coloro che ho incontrato nel mio cammino, persino chi mi ha messo, negli anni, i bastoni tra le ruote, e sono stati in diversi. A costoro devo soprattutto l’aver sviluppato una forma di resistenza che mi ha fortificata e mi ha reso ancor più testarda. Devo altresì ringraziare il mio compagno, che mi ha ispirata incessantemente grazie al suo carattere poco disciplinabile e controcorrente e l’intera mia famiglia, che ha creduto in me dal primo istante, sostenendomi con la presenza e l’amore. Devo inoltre ringraziare gli amici veri, che mi sono stati accanto nella buona, come nella cattiva sorte, gli editori che hanno voluto pubblicare il mio lavoro e il mio agente letterario, con l’insieme dei suoi collaboratori. Il pensiero va poi a coloro che non ci sono più, ma che sono stati i miei maestri di vita, come i miei nonni ed altri affetti cari, e con i quali intrattengo ancora un profondo e incessante dialogo interiore.

Scrivi anche per alcuni magazine e riviste di settore, nelle quali tieni delle rubriche. Ci vuoi parlare di quest’altro aspetto del tuo lavoro? Di cosa trattano le tue rubriche, quali i temi che affronti, quali gli articoli che, secondo te, sono più interessanti e attuali? Insomma, raccontaci di questa attività da editorialista letterario e culturale…

Dopo la laurea mi sono dilettata, come giornalista, a pubblicare pezzi per vari quotidiani e riviste. La scrittura breve e mirata, richiesta negli articoli, ha continuato ad attrarmi per la forza che ha; ho così avviato alcune stabili collaborazioni inerenti, perlopiù, al settore culturale e poetico. Curo infatti un mio blog, “ColtivarCultura”, sul quotidiano online ArezzoNotizie, nel quale mi sono occupata di letteratura, arte, politiche giovanili, inchieste, sempre con un taglio di approfondimento critico e talvolta scegliendo la modalità dell’ intervista. Collaboro inoltre con la rivista letteraria italo-francese “La Bibliothèque Italienne”, occupandomi della pagina dedicata alla poesia italiana del XX e XXI secolo e, sempre in tema di poesia, curo la rubrica Gloxa della celebre rivista “Atelier”.

«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? La bellezza letteraria, della poesia e della scrittura in particolare, la bellezza nell’arte, nella cultura, nella conoscenza… Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?

La domanda che poni è rimasta irrisolta per secoli e concerne lo statuto dell’arte, della rappresentazione estetica. Il bello è in genere associato al piacere, ma ad esso non può essere ridotto: l’amore, per esempio, può fare anche male a piccoli tratti, eppure è qualcosa di bello perché ci nutre, ci accresce ed è autentico quando dura. Ecco che, in tal senso, il concetto di “bellezza” oltrepassa quello di mero piacere e si lega alla pienezza, alla crescita, alla durata. Filosofi e pensatori hanno dibattuto sul tema e, in accordo con Eco, credo che una soluzione finale, una risposta definitiva, alla domanda “che cos’è la bellezza?”, non riusciremo a trovarla. Il bello, al pari del divino, sfugge ogniqualvolta lo si tenti d’incasellare in una definizione, perché, al pari di tutto ciò che davvero ha importanza, oltrepassa la ragione e il desiderio umano di inquadrare quello che sfugge. Il bello, allora, è qualcosa che sfugge e che si dà in un gioco incessante di domanda e risposta, di ricerca di significati, ma è altresì qualcosa che non si riduce alla mera soggettività, possedendo in sé tutta la forza dell’universalità (ciò che è comprensibile a tutti). In tal senso mi discosto dal relativismo radicale odierno, che intende l’arte e il bello come elementi che si legano unicamente al gusto personale. Il bello, pur mutando storicamente, possiede in sé ciò che lo fonda e che lo rende eterno, tanto da riuscire a legare gli uomini gli uni agli altri. Difatti, se il bello è davvero tale, allora possono percepirlo, ovvero, tutti ne percepiscono la spinta spirituale che ha per risultato “il far bene a chi la prova”. Potremmo quindi parlare del bello a partire dai frutti che genera: se esso è davvero tale, allora produce il ricongiungimento tra l’io e la propria parte interiore, tra l’io e gli altri, elevando chi lo percepisce a una dimensione che non si riduce più alla mera materialità e alla pura percezione. La bellezza è quindi una soglia, un ponte che ci lega gli uni agli altri e che ci congiunge alla parte più vera di noi stessi e della vita.

«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello che facciamo?

Anche in questo caso, i compartimenti stagni non rendono l’essenza in divenire della vita e dell’uomo. Il fato, forse, altro non è che ciò che non riusciamo ancora a comprendere, al tempo stesso, ciascuno di noi è dotato di libero arbitrio, grazie al quale possiamo indirizzare la nostra esistenza e scegliere chi diventare, in cosa credere, quali valori far prevalere, che significato attribuire agli altri e così via. E’ però sciocco chi crede che tutto dipenda da se stesso e chiunque s’illuda che la volontà può fare tutto: nel mondo esistono difatti gli imprevisti, le imperfezione e, fortunatamente esiste una dimensione che sfugge al calcolo e alla previsione e nella quale tutti siamo immersi. La vita è allora un compromesso tra la nostra volontà e questo imprevedibile che tutti permea. La vera saggezza sta nella capacità di discernere ciò che possiamo modificare, e su cui possiamo incidere, e ciò che, di contro, dobbiamo imparare ad accettare.

«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali. (…) Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Tu cosa pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine”, ovvero, “leggere sé stessi” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero…

Credo che ogni lettore, nel momento in cui sente di amare un libro, riconosce qualcosa di se stesso in quelle pagine e da questa “sintonia” nasce il fare di quel testo qualcosa di proprio. Grazie ai libri degli altri, si spalanca spesso la comprensione di qualcosa che è relativo a noi stessi; in tal senso mi sento vicina a Proust e, tuttavia, non ritengo che la conversazione sia da demonizzare, sebbene serbi in sé, nella maggior parte dei casi, il germe della prevaricazione. Accade infatti che verità spirituali, alte o la valorizzazione stessa dell’intelletto, possano prendere forma anche grazie al dialogo, ma se e solo se esso si basa sulla comprensione reciproca -intesa come assenza di giudizio- e sull’ascolto autentico. In tal caso, anche la conversazione può diventare terreno di virtù e dare vita a importanti processi di crescita, come la filosofia socratica, interamente dialogica e orale, c’insegna. La parola orale è altresì il luogo in cui, nella pòlis greca, si costruiva la democrazia, che si basava proprio sul dialogo e sull’azione condivisa da cittadini liberi.

«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie ha successo? E’ più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale, armonico, musicale, accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?

Trovo la posizione di Bukowski assai utilitaristica e funzionalista, in quanto egli subordina la qualità di un testo alla riuscita, identificando la prima con la seconda. Un libro ha perciò valore solo se funziona, laddove “il funzionare” andrebbe tuttavia approfondito e specificato e, probabilmente, concerne il successo in termini di pubblico. Questa prospettiva, che tende a subordinare il valore di un’opera al riscontro altrui (ripeto, riscontro importantissimo, poiché chi scrive e chi crea lo fa anche per gli altri), non mi appartiene. E’ altresì vero che, nel momento in cui si lavora ad un testo, non è possibile vagliare ogni parola, interrogandosi costantemente su “che cosa sia ciò che stiamo producendo”. Credo ad ogni modo che una riflessione più approfondita sui presupposti dell’arte e della letteratura contemporanee, sarebbe assolutamente necessaria e farebbe bene a tutti, in quanto, sulla base di prospettive simili a quella di Bukowski, siamo giunti al paradosso per cui tutto oggi è arte e chiunque abbia pubblicato un libro si definisce “scrittore”.

«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato… C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno pochissima energia… non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu da poeta cosa pensi in proposito? Ha ragione Bukowski a dire queste cose? Cosa è oggi la poesia per te, riprendendo il pensiero di Bukowski?

È interessante e condivisibile ciò che sostiene Bukowski, allorché afferma il dilagare -ai suoi tempi, come oggi- di una poesia priva di energia, scritta da gente che non ha vissuti veri alle spalle. Questo è qualcosa che anch’io lamento: sento e leggo testi che non arrivano, possono impiegare anche un linguaggio aulico e innovativo, o sperimentale, ma non attivano in me  alcun sentimento, né spalancano comprensioni particolari. Manca il fuoco e manca la profondità interiore, manca, quindi, il vero contenuto nella maggior parte della poesia contemporanea. Sono pochissimi i testi di autori odierni che riescono a farmi piangere o sognare. E credo che Bukowski abbia perfettamente ragione in questo caso: la parola è vuota, morta, non solleva l’anima né la accende, perché chi scrive non ha alle spalle vissuti autentici, né ha intrapreso un vero percorso alla scoperta di sé. In tal senso, sono grata alla scomodità e al misconoscimento che la mia vita mi ha spesso riservato, come raccontavo precedentemente, questo mi ha temprato, mi ha spinto a fare meglio e a scrivere di ciò che avevo sperimentato sulla mia pelle.

«Il ruolo del poeta è pressoché nullo… tristemente nullo… il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione, non è una persona reale, e non ha la forza di guidare uomini veri in questioni di sangue e coraggio.» (Intervista ad Arnold Kaye, Charles Bukowski Speaks Out, “Literary Times”, Chicaco, vol 2, n. 4, March 1963, pp. 1-7). Qual è la tua idea in proposito rispetto alle parole di Bukowski? Cosa pensi del ruolo del poeta nella società contemporanea, oggi social e tecnologica fino alla esasperazione? Oggi al poeta, secondo te, viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale, oppure, come dice Bukowski, fa parte di una “élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente, una sorta di “club” riservato ed esclusivo, senza incidere realmente nella società e nella cultura contemporanea?

Il poeta vero oggi è morto e con lui la poesia autentica. Non essendoci più poesia nel mondo tecnico e tecnologico odierno, non v’è neppure più il poeta che incarnava il ruolo di vate. Eppure, dobbiamo ringraziare questa morte perché, l’idea che il poeta fosse un eletto, ha prodotto deliri, che hanno poi sostenuto ideologie totalitarie. Al contempo, nel mondo desacralizzato odierno e nel bel mezzo del disincanto prodotto dalla secolarizzazione, il poeta non potrebbe più, in alcun modo, essere un eletto. Oggi la poesia vera stenta a emergere perché, da un lato, il mondo contemporaneo è il mondo delle intelligenze artificiali, della virtualità, delle emergenze e della paura, del progresso scientifico coatto, della fine della morale, della solitudine dell’individuo, del tramonto delle lotte politiche e del postumano, dall’altro lato, la poesia vera fa fatica perché si autoproclamano potei coloro che non  ne hanno la stoffa. Mi spiego meglio: la democraticizzazione della visibilità (e non parlo della democraticizzazione del sapere che, invece, è una cosa buona e per la quale dovremmo lottare, in quanto il sapere è, ancora oggi, essenzialmente classista e d’élite) e l’idea che, attraverso i social e la tecnologia, a tutti sia dato un palco su cui esibirsi, hanno ucciso quell’ultimo residuo di poesia  vera, che giaceva non nell’idea del poeta-vate alla D’Annunzio, bensì nell’esempio della grande poesia di Ungaretti, o Pasolini, e degli altri versificatori che hanno messo in parola il sentire di un’intera epoca, cogliendo in pieno lo spirito del tempo e anticipando l’avvenire. Eppure, proprio nel mondo sradicato odierno, vedo nascere un nuovo bisogno di poesia, ma un bisogno che resterà insoddisfatto finché non ripartiremo dalla domanda fondamentale, da quella domanda che, di contro, Bukowski rifiutava, ovvero: “che cos’è davvero la poesia?”. Non importa se tale domanda resterà irrisolta, ciò che conta è tornare a porsela.

«In una società in cui le parole sono usate anzitutto nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi. Sono schiavi spesso per opera del demagogo che sa usare con astuzia i valori connotativi delle parole … altre volte si è schiavi per una sorta di occulto patto sociale per cui certi valori, che è scomodo sottoporre a critica, sono protetti da parole magiche, che istintivamente connotano “positività”. Allora tutte le parole che connotativamente vi si oppongono appaiono alonate di terribile e ampia “negatività”. Quando una società è prigioniera di questi tabù linguistici, chi cerchi di muovervisi criticamente è soggetto a esperienze tremende, prigioniero della maglia di parole da cui sarà soffocato, personaggio kafkiano che infine non riuscirà più a comprendere quali sia il potere che lo sovrasta.» (Umberto Eco, “Sotto il nome di plagio”, Bompiani ed., Milano, 1969). Cosa ne pensi di questa lucida analisi di Umberto Eco che fece nel lontano 1969, e oggi quanto mai attuale? Qual è secondo te oggi il valore della parola e quali i rischi terribili nell’usarla criticamente contro il cosiddetto mainstream?

Ciò che afferma Eco è verissimo e di una lungimiranza accecante: noi viviamo oggi in quella prigione costituita da una maglia di parole che soffocano tutti coloro che tentano ancora un approccio critico al reale. La parola è stata dissacrata, consegnata al mercato, al profitto, mercificata e mutata in mero strumento di potere. Essa è stata disconnessa da ogni morale e resa mezzo di manipolazione delle masse, strumento di elaborazione subdolo di un “pensiero dominate” funzionale a disciplinare le coscienze. Siamo difatti nel bel mezzo di una crisi che, prima ancora di essere economica, sociale o politica, è linguistica e dunque ontologica. L’uomo ha perduto il legame tra sé e la parola, tra sé e il lògos, tra sé e la ragione incarnata, tra sé e la propria coscienza morale, frantumando così ogni autentico legame con l’alterità e con il mondo tutto.

Ogni cosa è decaduta nella logica strumentale che oggettifica la vita e il linguaggio è lo strumento privilegiato di un potere che si basa ormai sulla menzogna, cioè sulla falsificazione del vero. Vero inteso in quanto “natura propriamente umana”. Il contesto odierno si è così votato alla causa della riplasmazione della natura umana, ed ecco che la parola, da ponte tra individualità, da luogo di vita capace di creare il mondo, è divenuta uno strumento violento di dominio, attraverso cui propagandare, con l’ausilio del web e dei vari mezzi di comunicazione, ideologie di morte, spesso camuffate con un’altra menzogna linguistica e quindi pratica: quella che si appella al “bene comune”, alla “salute pubblica” per poi piegare le coscienze. Ciò che è più grave, è l’identificazione, ormai innegabile, tra politica e menzogna, dunque, la democrazia, che si basava sulla sovranità popolare, è ormai un’utopia del secolo scorso, che ha ceduto il posto a un autoritarismo verticistico globale.

«Io vivo in una specie di fornace di affetti, amori, desideri, invenzioni, creazioni, attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in base ai fatti perché l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in quello che faccio, ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato grazie a tutto questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo stesso fisica e metafisica…» (Anaïs Nin, “Fuoco” in “Diari d’amore” terzo volume, 1986). Cosa pensi di queste parole della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quanto l’amore e i sentimenti così poderosi sono importanti per te e incidono nella tua scrittura, nella tua arte e nel tuo lavoro?

Quello che afferma Anaïs Nin è il frutto di un’esistenza che non ha mai disgiunto il sentire, l’amore e la relazione dalla scrittura. Le parole di Nin diventano, così, l’esempio lampante della coerenza tra scrittura e vita a cui accennavo poc’anzi. Ci sono state fasi di dolore, nella mia vita, che mi hanno del tutto impedito di scrivere. Altre in cui la gioia era talmente piena, da rischiare di essere contaminata se l’avessi messa in forma di parola. Voglio dire che non c’è vera ricerca -nella scrittura come in ogni forma espressiva- se prima non v’è ricchezza di vita, di sentire, di affetti, di dono, di relazione. Occorre essere aperti all’esistenza tutta, alle sue meraviglie e ai suoi dolori, da assaporare anch’essi sino in fondo, restando svegli, attenti, vigili e pronti a recepire i segni che la vita ci dà.

«Lasciate che vi dia un suggerimento pratico: la letteratura, la vera letteratura, non dev’essere ingurgitata come una sorta di pozione che può far bene al cuore o al cervello – il cervello, lo stomaco dell’anima. La letteratura dev’essere presa e fatta a pezzetti, sminuzzata, schiacciata – allora il suo squisito aroma lo si potrà fiutare nell’incavo del palmo della mano, la potrete sgranocchiare e rollare sulla lingua con gusto; allora, e solo allora, il suo sapore raro sarà apprezzato per il suo autentico calore e le parti spezzate e schiacciate si ricomporranno nella vostra mente e schiuderanno la bellezza di un’unità alla quale voi avrete dato qualcosa del vostro stesso sangue» (Vladimir Nabokov, “Lezioni di letteratura russa”, Adelphi ed., Milano, 2021). Cosa ne pensi delle parole di Nabokov a proposito della lettura? Come dev’essere letto un libro, secondo te, cercando di identificarsi liberamente con i protagonisti della storia, oppure, lasciarsi trascinare dalla scrittura, sminuzzarla nelle sue componenti, per poi riceverne una nuova e intima esperienza che poco ha a che fare con quella di chi l’ha scritta? Qual è la tua posizione in merito?

Mi piacciono molto le parole che usa Nabokov e approvo l’idea che la letteratura debba essere fatta a pezzetti, per essere veramente assaporata. Così ho fatto anch’io con tutti i libri che ho maggiormente amato e che ho letto, riletto, sottolineato, declamato, studiato, approfondito, criticato… Quando si ama un libro o un’idea, del resto, da prima si vorrebbe possedere quella stessa forza, poi si nutre invidia verso chi ha generato tanta bellezza, quindi emulazione. L’approccio di Nabokov è analitico, ma non del tutto razionale: quello spezzettamento a cui allude, infatti, si compie, anzitutto, per istinto. Credo, ad ogni modo, che il rapporto con ciascun libro sia privato e singolare: relazionarsi a pagine scritte, è come conoscere tanti individui diversi, tra costoro vi sarà chi ameremo, chi odieremo, chi ci lascerà indifferenti e così via. Per quel che mi riguarda posso affermare che, non sono molti i libri che mi hanno conquistata a tal punto, da costringermi a quel lavoro di spezzettamento di cui parla Nabokov.

Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri da leggere in queste vacanze estive dicendoci il motivo della tua scelta.

Vorrei consigliare dei classici, ovvero letture imprescindibili, non soltanto per chi abbia velleità letterarie o artistiche, ma per chiunque. Per “classico” intendo infatti un’opera che supera il corso del tempo e l’andare delle mode; un’opera che squarcia il cuore e la percezione, per farsi intramontabile sia nell’intimità di chi in essa s’imbatte, che a livello storico e sociale. Per quel che concerne la poesia, consiglierei, assolutamente, la lettura della raccolta “Ossi di seppia” di Eugenio Montale, un capolavoro assoluto in versi. Per ciò che concerne la saggistica, consiglierei, assolutamente, la lettura de “La banalità del male” di H. Arendt, un libro duro, che tratta della Shoah, del processo a uno dei teorici e artefici di essa, ma che è imprescindibile se volgiamo comprendere il nostro presente, noi stessi, e capire la direzione in cui si diramerà il futuro. Infine, per ciò che concerne la narrativa, assolutamente “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, uno scrittore che amo incommensurabilmente.

… e tre film da vedere? E perché secondo te proprio questi?

Fellini, “Otto e mezzo”, un capolavoro, nel quale, per la prima volta nella storia del cinema, è portato in scena il fallimento invece dell’eroismo, la disfatta invece della vittoria e l’incapacità di creare, che segna inevitabilmente ogni grande artista e pensatore, invece del mito della “prolificità coatta e su richiesta”. “L’albero degli zoccoli” di Olmi, in cui si racconta quel mondo contadino, fatto di religione e storie, di cui siamo figli e che la cultura odierna, tecnologica, virtuale e industrializzata, sta ormai cancellando, privandoci della consapevolezza delle nostre radici, dell’amore verso la natura, tanto da cancellare quel patrimonio valoriale immenso che la legge dei campi serbava e custodiva da secoli. Amo poi Nanni Moretti, quello di “Bianca” e capace di un’ironia elegante, che è il perfetto ritratto dell’Italia dal boom economico ai giorni nostri, infine tutto il cinema Ken Loach, un regista coraggioso, che affronta temi sociali impellenti, come la disoccupazione, esponendosi in prima persona e sfidando la cultura dominante, la sua censura, lottando così, con sincero amore, per i più deboli.

Ci parli dei tuoi imminenti e prossimi impegni culturali e professionali, dei tuoi lavori in corso di realizzazione? A cosa stai lavorando in questo momento? In cosa sei impegnata che puoi raccontarci?

Sto lavorando a un libro dedicato ad Anna Freud, alla sua biografia, ma in una forma inattesa (non posso anticipare altro). Il libro uscirà nel prossimo periodo con Les Flaneurs editore e sto anche lavorando a un nuovo saggio filosofico (di stampo morale), che vuole essere il prosieguo de “Due saggi dirompenti”. Si tratta, a questo proposito, di un testo che va ad analizzare le correnti (pseudo)etiche oggi dominanti, approfondendo i tratti peculiari dell’uomo dei nostri giorni (come direbbe Heidegger, andando a trattare “l’analitica esistenziale nell’era del postumano”). Infine, intorno a settembre, uscirà la mia nuova silloge poetica, con Controluna edizioni (gruppo Castelvecchi- Elliot), intitolata “L’approdo dei sogni”.

Dove potranno seguirti i nostri lettori?

Sulla mia pagina Facebook, al link https://www.facebook.com/lucrezia.lombardo.526 , oltre che sul mio blog, al link https://www.arezzonotizie.it/blog/coltivarcultura/ .

Inoltre,  nel prossimo periodo, sarà pronto anche il mio sito personale.

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

Vorrei, anzitutto, ringraziare quei lettori che avranno avuto la pazienza di arrivare sino alla fine di questa nostra chiacchierata, sperando che non sia stata troppo noiosa, e vorrei augurare a tutti una vita ricca dal punto di vista umano e ricca di una felicità duratura, fatta non di sole cose materiali, ma di rapporti autentici, di verità con se stessi e di coraggio.

Lucrezia Lombardo

Lombardo Lucrezia

I libri:

Lucrezia Lombardo, “Una vita di lampo: Portraits de poètes”, Eretica Edizioni, 2023:

Mariangela Miceli (autrice), in collaborazione con Lucrezia Lombardo (curatrice) e Virginia Covoni (Illustratore), “Il processo artificiale. un ragionevole dubbio sugli algoritmi in tribunale”, Divergenze ed., 2023:

Lucrezia Lombardo, “Iasomia indiană. Il gelsomino indiano”, Bacău: © Editura Cosmopoli, 2023:

Lucrezia Lombardo (autrice), in collaborazione con Marco Vagnozzi, Massimiliano Marianelli (curatori) e Virginia Covoni (Illustratore), “Due saggi dirompenti. La repubblica delle occasioni risolutive-Il processo coscienziale”, Divergenze ed., 2022:

Lucrezia Lombardo, “L’errore della luce”, Ensamble ed., 2022:

Lucrezia Lombardo, “Scusate, ma devo andare”, Porto Seguro ed., 2020:

Tutte le pubblicazioni di Lucrezia Lombardo:

– il saggio “L’Alunno” (Divergenze 2019), vincitore del primo premio al concorso “Nuovi Saperi”;

– le raccolte poetiche “La Visita” (L’Erudita, Giulio Perrone 2017), “La Nevicata” (Il Seme Bianco, gruppo Lit-Castelvecchi 2017), “Solitudine di esistenze” (L’Erudita, Giulio Perrone 2018), “Paradosso della ricompensa” (Eretica 2018), “Apologia della sorte” (Transeuropa 2019), “In un metro quadro” (Nulla Die 2020), “Amor Mundi” (Eretica 2021), con prefazione del poeta e regista Mauro Macario;

– la raccolta di racconti “Scusate, ma devo andare” (Porto Seguro 2020);

– il romanzo “Kinder” (Augh! 2021);

– ha curato la silloge “Elegia Ambrosiana” (Divergenze 2021), con lo scrittore Raul Montanari;

– ha redatto l’articolo “Manifesto della nuova umanità” per la rivista “Kultural”;

– la silloge “Cercando il mezzogiorno” (Helicon 2021; vincitrice del primo premio, per la poesia inedita, al concorso “La Ginestra di Firenze”);

– la raccolta di racconti “Un karma distratto” (Porto Seguro 2021);

-il saggio filosofico “Due saggi dirompenti. La Repubblica delle occasioni risolutive e il processo coscienziale” (Divergenze 2022);

-la silloge “L’errore della luce” (Ensamble 2022);

-curatrice e autrice del secondo numero della rivista di scienze umane “Augeo”, titolo del numero “Oltre l’ideologia dell’emergenza”, Divergenze 2022;

-Autrice di un testo per l’antologia della Giulio Perrone editore (2022);

-autrice del libro “Una vita di lampo. Portraits de poètes” (Eretica edizione 2023, in collaborazione con la rivista letteraria internazionale italo-francese La Bibliothèque Italienne);

-Autrice della silloge “Il gelsomino indiano” edito, in italiano e romeno, dalla casa editrice romena Cosmopoli (2023);

-curatrice del libro “Il processo artificiale” di Mariangela Miceli (Divergenze 2023);

-Autrice di un testo e un aforisma pubblicati rispettivamente nell’Antologia per i 18 anni della Giulio Perrone e nel Taccuino della stessa casa editrice (Giulio Perrone editore, 2023);

-Prossima uscita delle sillogi “La venditrice di menta”, Progetto Cultura editore; “L’approdo dei sogni”, Controluna edizioni (Gruppo Il Seme Bianco- Lit, Castelvecchi- Elliot).

Andrea Giostra

Andrea Giostra al mercato di Ballarò_Ph. Mapi Rizzo

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