Negli anni in cui, di fatto, gli inglesi furono padroni della Sicilia si registrarono episodi poco chiari su cui la storiografia ufficiale ha indagato, fino ad un certo punto. Al centro di queste vicende la figura ambigua di Maria Carolina, consorte di re Ferdinando, donna ambiziosa e intrigante che aveva maturato, nel tempo, una forte diffidenza, se non addirittura odio, nei confronti del potente alleato albionico. Una diffidenza che diede spazio a mestatori d’ogni genere per imbastire complotti e restituire l’immagine di una regina dedita all’intrigo e al complotto. L’episodio che raccontiamo riguarda la presunta intelligenza della regina con il nemico storico dei Borbone, si parla di Napoleone e dei suoi francesi.
Nel novembre del 1811, dopo una difficile navigazione, in tutta segretezza approdò a Cefalù, proveniente dalla Napoli murattiana, un tale Gagliani, funzionario di dogana e latore di una lettera riservatissima del principe di Luzzio destinata alla regina Maria Carolina. In questa missiva, il nobile napoletano assicurava la regina che talune sue lettere, senza specificarne il contenuto, erano state già trasmesse a Parigi e che, in merito all’intervento francese, fosse necessario pazientare ancora in attesa della riorganizzazione delle truppe francesi.
Il Gagliani fu subito portato al cospetto della regina che, in quei giorni, si trovava a Santo Stefano di Camastra in convalescenza. Maria Carolina non ebbe dubbi a individuare il falso, sia perché non le risultava di avere spedito nessuna lettera a Parigi, sia perché, conoscendo la grafia e la firma, si era immediatamente resa conto che non era stata scritta dal principe. Messo alle strette, il Gagliani confessò che la lettera era stata compilata da tale barone Scarpa e che l’obiettivo recondito fosse quello di metterla in cattiva luce davanti agli inglesi. Quella lettera doveva, infatti, cadere in mano agli uomini di Bentick per farne prova del tradimento della casa reale borbonica. Il Gagliani e il suo seguito furono subito arrestati e condannati.
L’episodio, tuttavia, non fu il solo, tanto è vero che venne affisso, “nei cantoni”, di Palermo il seguente dispaccio a firma del marchese del Circello: “S.M. è ormai stanca di veder tendere da una bassa polizia artificiose insidie, per potersi dall’inimico turbare quella buona armonia tra la M.S. ed i suoi potenti alleati, la quale non sarà infranta giammai; né può S.M. ulteriormente tollerare che frequenti emissari continuino a introdursi in questo Regno con carte simulate e mentive che si è financo avuto l’ardire di rizzare alla rispettabile e augusta consorte della M.S. Ad evitare perciò nell’avvenire simili inconvenienti, ha comandato S.M. che da ora in avanti chiunque sia sorpreso di apportare carte di tale natura nel Regno, sulla sola prova dell’apportazione di esse sia irremissibilmente afforcato tra ventiquattr’ore…”.
Nonostante quest’indignato dispaccio, le autorità britanniche non furono del tutto convinte della buonafede della famiglia reale, tant’è che il 4 dicembre, senza consultare i responsabili borbonici, a Messina procedettero all’arresto di numerose persone implicate, a loro dire, in “intrighi” che avrebbero avuto come obiettivo la “distruzione di entrambi”, cioè inglesi e Borboni. Un intervento, quello degli inglesi del generale William Maitland, considerato dal Consiglio di Stato presieduto dalla Regina, alla presenza del principe ereditario, come un vero e proprio “attentato” alla sovranità borbonica.