Resta in carcere con l’accusa di associazione mafiosa e procurata inosservanza di pena aggravata il geometra Andrea Bonafede che ha prestato l’identità al boss Matteo Messina Denaro e ha acquistato per suo conto la casa in cui il padrino ha trascorso gli ultimi mesi della latitanza. Lo ha deciso il tribunale del Riesame che ha respinto il ricorso contro la misura cautelare presentato dal legale dell’indagato. L’accusa era rappresentata dal pm Piero Padova.
Nonostante fosse stata presentata la linea difensiva di Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, per aver prestato l’identità al boss Matteo Messina Denaro: “Ha agito dietro grave minaccia, dunque, in stato di necessità“- dichiara il suo legale – che ha sostenuto davanti al tribunale del Riesame, al quale ha chiesto la revoca della misura cautelare, che Bonafede abbia assecondato le richieste del capomafia per paura, ma ha negato che il boss abbia esplicitamente minacciato il suo assistito.
Una sorte di timore reverenziale, dunque, che derivava dal rilievo criminale del boss. L’avvocato ha raccontato inoltre che il geometra e il padrino si conoscevano da ragazzi e si sarebbero rivisti due anni fa. Casualmente, allora, Messina Denaro avrebbe chiesto aiuto a Bonafede che, dunque, non nega di avere sempre saputo chi era il suo interlocutore. Il legale ha inoltre detto che il capomafia, ormai certo di avere i giorni contati, si muoveva con una certa libertà in paese e che, sapendo di essere gravemente malato, aveva ridotto il livello di cautela sempre avuto. Argomentazioni che, secondo il pm Piero Padova sarebbero illogiche. “Da cosa sarebbe derivato il timore visto che non c’erano state minacce esplicite?” – ha replicato – e soprattutto visto che il latitante ormai certo di morire non era più, a dire dello stesso legale, il padrino di un tempo. Inoltre lo stato di necessità, per l’accusa, mal si concilia con una condizione che si è protratta per due anni. I giudici si sono riservati la decisione.