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Mercoledì 25 giugno

Palermo, all’istituto Pedro Arrupe la presentazione del libro “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio” di Vincenzo Ceruso

lunedì 23 Giugno 2025

Mercoledì 25 giugno 2025, alle ore 18.00, presso l’Istituto di formazione politica “Pedro Arrupe” di Palermo, si terrà la presentazione del libro “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio”, edito da San Paolo e scritto da Vincenzo Ceruso.

L’evento sarà introdotto da Padre Gianni Notari, direttore dell’Istituto, e vedrà la partecipazione di Emiliano Abramo, responsabile della Comunità di Sant’Egidio in Sicilia, e di Sebastiano Mignemi, presidente della I Sezione penale della Corte d’Appello di Catania.

A moderare l’incontro sarà la giornalista Adele Di Trapani. Sarà presente anche l’autore.

La presentazione si inserisce in un percorso di riflessione pubblica sulla figura di Paolo Borsellino, con particolare attenzione al legame tra la sua azione di magistrato, il suo senso civico e la sua fede. Durante la serata sarà letta la prefazione del libro, firmata da Emiliano Abramo.

 

LA PREFAZIONE DEL LIBRO

La prefazione di Emiliano Abramo, Responsabile Comunità di Sant’Egidio in Sicilia a Vincenzo Ceruso, “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio” (San Paolo, 2025):

“La lettura del lavoro di Vincenzo Ceruso è appassionante. La ricostruzione della vita e del lavoro di Paolo Borsellino, documentata da fatti ed atti processuali, è attraversata dalle preoccupazioni dell’uomo – come la paura di non incontrare mai più la figlia – da incontri, valori personali e responsabilità. E dalla sua fede. 

La prima immagine che mi è tornata in mente, proprio all’inizio della lettura, è quella del 31 marzo 2000, quando Agnese Borsellino — la vedova del magistrato — ha consegnato al Santo Padre Giovanni Paolo II il bozzetto originale del manifesto con cui sono stati ricordati e onorati i ventiquattro magistrati che in questi ultimi anni sono stati assassinati a causa della loro dedizione alla giustizia. Quel gesto la signora Agnese è stato accompagnato da un incisivo indirizzo di saluto ed è avvenuto in presenza di un folto gruppo di giudici, convenuti a Roma per partecipare al congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati (F. V., Quel debito di riconoscenza verso i “martiri della giustizia”, in L’Osservatore Romano, 1-4-2000). La cerimonia ha così costituito la naturale conclusione di un cammino iniziato nel 1993, quando il presidente dell’ANM ebbe a sottolineare il patrimonio spirituale che l’esempio di Paolo Borsellino (1940-1992) rappresenta per tutta la comunità civile e cristiana. Paolo Borsellino ha, con il suo sacrificio, smentito la diffusa opinione secondo cui i cattolici italiani sarebbero buoni padri, discreti mariti, volenterosi operatori sociali, ma funzionari distratti e, in definitiva, mediocri cittadini. Aveva una vita religiosa e familiare intensa ed esemplare (non a caso venne ucciso mentre si recava a fare visita ad un’anziana ovvero alla madre), ma non è stato ucciso a causa di queste virtù. I suoi provvedimenti, che hanno colpito interessi potenti e omicidi, non erano diversi da quelli redatti da colleghi che non nutrivano una fede religiosa, e che hanno parimenti affrontato la morte come prezzo della fedeltà alle regole di giustizia.

L’autore di questo testo, nel raccontare Paolo Borsellino, non enfatizza pertanto l’essere cristiano del giudice Borsellino e neanche prova a porlo su un livello diverso rispetto ai colleghi, consapevole che la fede non separa o divide i credenti dai non credenti perché l’adesione ai valori della giustizia costituisce un terreno comune per tutti gli uomini di buona volontà. L’apostolo Paolo riconosce e quasi codifica questa comunione fra chi crede nel valore trascendente dei testi evangelici e tutti gli uomini retti, che sono “circoncisi nel cuore”, circoncisi di una circoncisione non fatta da mano d’uomo. A fianco di quelli che osservano la legge perché la conoscono attraverso la Rivelazione si collocano dunque coloro che “[…] sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rm. 2, 14-15). […]  Del resto, la Chiesa da sempre onora come martire san Giovanni Battista, imprigionato e ucciso da Erode (14 a. C.-39 d. C.) perché aveva osato puntare il dito contro di lui ed Erodiade pronunciando l’ammonimento che tanto spiace a tutti i potenti della terra: “Non ti è lecito” (Mt. 14, 4). […] Tutti i caduti per la legalità, credenti e non credenti, senza distinzione, hanno testimoniato quella legge universale che s’impone a ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia […].

 Qualcuno ha detto: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E certo la presenza di eroi in una società, e in specie nel mondo della giustizia, è sintomo di crisi e di disagio.

L’obbedienza alla legge nelle società pacifiche e ben ordinate raramente attinge i vertici dell’eroismo, cioè richiede la capacità di anteporre il senso del dovere a propri rilevanti interessi, e talvolta alla vita stessa. Anche nel luogo più tranquillo il poliziotto o il vigile del fuoco, debbono essere pronti ad anteporre l’adempimento del dovere alla propria vita. Ma nelle società ad alto tasso di criminalità l’eroismo viene richiesto a una sfera molto allargata e purtroppo via via più ampia di persone. Nel documento, redatto fra gli altri da Giovanni Falcone e con cui si concluse l’assemblea della ANM riunita a Palermo il 27 ottobre 1990 sotto la presidenza di Paolo Borsellino, dopo l’assassinio di Rosario Livatino, si legge che, “[…] sotto le vesti della democrazia, si intravedono sempre più rapporti di potere reale basati sul decadimento del costume morale e civile, su intrecci fra istituzioni deviate e organizzazioni occulte, su legami tra mafia e politica” (Documento approvato dall’Assemblea Straordinaria di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati, 27-10-1990). […] In un simile quadro ben si possono collocare addirittura forme di pressione e di lusinga sugli uomini della legge; accade persino che la sollecitazione a non compiere il proprio dovere giunga dall’interno delle strutture dello Stato, offrendo vantaggi di carriera a chi viola i propri doveri, prospettando ritorsioni di carattere pubblico a chi li adempie. Ceruso descrive anche queste dinamiche, arricchendo ulteriormente il racconto e facilitando la comprensione del lettore.

L’indifferenza, se non l’ostilità, di parti dello Stato accresce poi il rischio per coloro che adempiono il proprio dovere. È quindi vero che “la terra che ha bisogno di eroi” è “sventurata”; perché è sventurato quel popolo che non ha in sé le energie morali indispensabili affinché ogni cittadino, adempiendo ai propri doveri, facendosi carico della frazione, della briciola, di coraggio che gli compete, concorra a far sì che a nessuno si richiedano virtù eroiche.

Ma certo è ancora più sventurato il popolo che ha bisogno di eroi e non li trova, o ne disperde l’insegnamento. Il ricordo è quindi un dovere e questo testo può essere anche letto in questa chiave. La forza spirituale di chi “cerca il vero e pratica il bene”, di chi è sensibile al grido delle vittime dell’ingiustizia: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap. 6, 10).

Significativo è anche il rapporto che Borsellino instaurò con i mafiosi detenuti e con i testimoni, come riportato da Ceruso parlando di Rita Atria e Piera Aiello “con cui riusciva ad istaurare una relazione umana che rappresentava la prima alternativa alla dipendenza del mondo tribale di cosa nostra”. Paolo Borsellino ha incontrato e interrogato tanti uomini d’onore, alcuni credibili altri per nulla, e ha dato testimonianza ai suoi interlocutori che l’onore – quello vero – fosse quello del giudice e non quello della mafia. L’“onore di Borsellino” attinge all’universale, risponde a regole che, secondo le parole di Sofocle (525-406 a. C.), “[…] non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono; e nessuno sa da quando apparvero”. L’”onore di Borsellino” risponde a tavole etiche che rendono la vita di tutti migliore; è espressione di quella carità cristiana che è amore di Dio e del prossimo e che, quindi, è operativa e fattiva nel sociale. Invece le regole della criminalità distruggono la vita e il benessere di una società; conducono alla ricchezza di pochi e all’impoverimento di molti.

L’onore autentico attinge all’assoluto e perciò alla religiosità d’amore. A quella religiosità che è fondamento della democrazia stessa. Scrive Vincenzo Ceruso, riportando una testimonianza di Lucia Borsellino raccolta dallo stesso autore: “La grande fede che aveva gli ha consentito di essere lucido e di portare fino in fondo la sua missione”. […]

Nell’anno del Giubileo della speranza Ceruso ci ripropone un uomo che la ha testimoniata sino alla fine e, anche grazie a questo lavoro, continuiamo a recarci al giardino dei giusti. 

 

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