Il 20 maggio 1795, nel piano di Santa Teresa – oggi piazza Indipendenza a Palermo – la mannaia del boia cadeva sul collo dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, decapitandolo.
Appartenente alla nobiltà minore, era nipote dell’illustre storico Evangelista Di Blasi e di Salvatore Maria Di Blasi, abate di San Martino. Giurista illuminato e appassionato lettore di Rousseau, Di Blasi si era ben presto reso conto che ogni chance di modernizzazione della società siciliana, che considerava necessaria per il futuro dell’Isola, dovesse essere giocata sul terreno della garanzia dei diritti e su quello della crescita culturale del popolo siciliano.
Di Blasi, con la sua opera, la raccolta delle Prammatiche del Regno di Sicilia, commissionatagli dal Viceré di Sicilia, principe Francesco d’Aquino di Caramanico, aveva già toccato il tema caldo del potere baronale, potere fondato su privilegi e prerogative anacronistici considerati irrinunciabili da chi pretendeva di esserne titolare, delegittimandolo e, per questo, pur avendo ricevuto l’apprezzamento del sovrano, si era procurato sospetti e inimicizie negli ambienti che contavano. Ma il giovane avvocato Di Blasi, il quale in una sua opera aveva scritto, a chiare lettere, che “la disuguaglianza negli uomini ripugna alla ragione”, volle andare oltre la delegittimazione del potere baronale, pensava, infatti, che anche l’assolutismo monarchico contraddicesse il concetto del buon governo e aspirava alla fondazione di una repubblica che realizzasse l’idea democratica di cui era infervorato. Si fece, dunque, rivoluzionario confidando nel consenso popolare per realizzare il suo disegno utopico.
Forse, ingenuamente, immaginava che fossero sufficienti le idee e i buoni propositi per mobilitare la società siciliana, credeva infatti di potere richiamare il popolo a reclamare i suoi diritti, ambiva alla rivoluzione per rompere con la tradizione che considerava ostacolo alla modernizzazione.
Ma il fatto è, vedete, che aveva peggior disegno: voleva sovvertire l’ordine, proclamare la repubblica…la repubblica, Gesù mio, la repubblica. Il termine “repubblica”, così drammaticamente espresso dallo scrittore Leonardo Sciascia ne “Il consiglio d’Egitto”, sintetizza il timore del nuovo che agita, in quegli anni, nel tempo cioè degli eventi rivoluzionari di Francia, il potere costituito.
Ma quel popolo destinatario del suo messaggio di libertà non ha autonomia, è piuttosto populace, cioè plebe, tradizionalmente asservita ai padroni che non può riconoscersi e fare proprie le idee dell’intellettuale rivoluzionario. Inoltre, in Sicilia, non esiste una classe intermedia, una borghesia in grado di contrapporsi all’aristocrazia. Accade a Di Blasi ciò che già era accaduto ad altri radicali riformatori o rivoluzionari. Isolato, egli sperimenta come la solitudine sia una delle categorie necessarie per spiegare tutto quanto nei fatti di Sicilia appare inspiegabile, recenti vicende dell’Isola non possono che confermare come la solitudine dell’intellettuale, del politico, del riformatore che non voglia cedere al compromesso con le classi dirigenti porti inesorabilmente alla sua impotenza, quando non alla sua emarginazione, anche fisica.
Le masse restano saldamente legate agli interessi dei ceti dominanti – nel caso di Di Blasi le grandi casate – come avvenne allora e come avviene oggi nei confronti dei detentori del potere, lasciando soli quanti propongono il cambiamento, fatto di spinte innovative o modernizzanti.
L’ipotetica congiura venne sventata e pur apparendo le prove in merito alla sua diretta partecipazione molto labili, Di Blasi fu arrestato e, dopo un processo alquanto affrettato, condannato alla pena capitale. Ironia della storia, lui che aveva combattuto i privilegi, in quanto nobile, piuttosto che essere inforcato, come i comuni plebei, ebbe il privilegio di essere condannato alla decapitazione.”