Il potere criminale si fa sempre più giovane e immerso nel mondo dei social. A quattordici anni si tengono in tasca i soldi del pizzo, a sedici si impugnano armi vere o finte, a diciassette si diventa virali su TikTok minacciando i “nemici” tra una canna e un freestyle. La Direzione Investigativa Antimafia, nella Relazione integrale 2024, lancia un segnale chiaro: “Si osserva un progressivo abbassamento dell’età dei soggetti coinvolti in condotte criminali di tipo associativo, con modalità che replicano, semplificandoli, i codici mafiosi tradizionali.”
Il terzo articolo dell’analisi sulla Relazione semestrale 2024 della Direzione Investigativa Antimafia, presentata pochi giorni fa al Ministero dell’Interno e trasmessa alle Camere. Un’indagine che, in questa tappa, approfondisce il fenomeno delle nuove leve giovanili e delle baby gang, con particolare attenzione alla realtà siciliana.
Nei primi due articoli avevamo affrontato il lato “economico” del potere mafioso siciliano emerso dalla Direzione investigativa.
Dall’altro il grado di capacità tecnologica delle organizzazioni criminali siciliane nell’investire i proventi delle loro attività classiche (e non).
In questa terza parte descriviamo come la nuova mafia sia ancora più pericolosa della vecchia. Perché si dimostra fluida, giovane, digitale e iconica. E invisibile nelle sue radici sociali.
“Baby clan e gang” come anticamere e palestre della mafia del futuro
Il rapporto della Dia tratteggia e analizza il fenomeno dei baby clan, delle baby gang, della criminalità minorile strutturata. E non si tratta più di gruppi sregolati, figli di devianze personali o famiglie disfunzionali. Sono bande sempre più organizzate, gerarchizzate, radicate sul territorio. In certi casi, vere anticamere della mafia.
E i social, oggi, funzionano da specchio e megafono. Video sui social che mostrano armi, denaro, atti intimidatori, simboli della “gang life”, sono lo sfondo culturale di migliaia di ragazzi che cercano identità attraverso l’estetica del crimine. L’ostentazione diventa status. Il rispetto si misura in follower. E il pericolo più grande è che, in assenza di alternative credibili, il crimine sembri l’unico modo per essere qualcuno.
In Sicilia, questa trasformazione ha una natura ancora più profonda. Perché qui, il crimine minorile non è solo marginalità. È tradizione e cultura di quartiere distorta. È ricambio generazionale di un sistema in crisi, ma non morto.
La Relazione Dia 2024 lo esplicita: “Nell’isola, in alcuni contesti, la criminalità minorile agisce come braccio operativo di gruppi mafiosi storici in fase di riconversione o indebolimento. Le nuove leve, spesso inconsapevoli, vengono impiegate in attività di controllo del territorio, spaccio, intimidazione, incasso.”
È la mafia che cambia forma per sopravvivere. E che, in assenza di figure carismatiche forti, cerca nei giovani l’energia per rimanere dominante. Il crimine, oggi, non si trasmette solo per sangue o bisogno. Si trasmette per immaginario.
La musica, i social, le serie TV, i video virali collegati sono strumenti potentissimi di costruzione identitaria per centinaia di ragazzi che crescono in contesti marginali. Non è solo questione di messaggi espliciti. È lo stile che viene assimilato.
Nelle periferie siciliane da anni cresce e diventa diffusa una determinata cultura musicale che celebra “l’amico detenuto”, “il fratello arrestato ingiustamente”, “l’onore e il rispetto”. Alcuni video, seppur formalmente legali, sono veri inni all’epica mafiosa. Con migliaia di visualizzazioni e condivisioni, diventano colonne sonore di un’identità deviante. Tutto questo plasma la cultura del crimine come estetica.
Non più paura, ma fascino. Non più condanna, ma desiderio di appartenenza. E i social amplificano.
La relazione segnala che è in aumento la pubblicazione di video in cui minorenni mostrano pistole (vere o finte), catene d’oro, scene di “cattiveria” tra musica drill e trap siciliana. La criminalità diventa sempre più narrazione virale.
Questo non significa che la musica sia il problema, ci teniamo a precisare. Ma la questione preoccupante, rilevata dagli investigatori, è che è diventato per le mafie un canale potentissimo e centrale di legittimazione culturale.
E dove mancano narrazioni alternative, dove la scuola è debole e la politica è distante, quei simboli diventano modelli. Ed è anche da qui che si costruisce il consenso mafioso delle nuove generazioni.
Tre casi di cronaca emblematici in Sicilia
Carini e la “gang social”
Il caso di Carini, nel Palermitano, è uno dei più emblematici tra quelli segnalati nella relazione. Un gruppo di adolescenti tra i 14 e i 17 anni, senza precedenti penali, ha iniziato a controllare porzioni del territorio comunale, imponendo la propria presenza con atteggiamenti intimidatori, minacce a coetanei, piccoli furti e gestione di dosi di hashish e marijuana.
Il gruppo pubblicava i video delle proprie azioni su Instagram e TikTok: si facevano chiamare “Baby Kings” e si presentavano con passamontagna e sigarette accese, parlando con slang ispirato a Gomorra e alla trap napoletana.
Secondo la DIA, alcuni soggetti adulti vicini al mandamento mafioso di San Lorenzo erano a conoscenza delle attività della gang, e in almeno due occasioni ne avrebbero favorito la copertura.
Non è mafia nel senso classico. Ma è struttura utile, funzionale, alimentata da dinamiche mafiose.
Catania: le baby gang per le “punizioni esemplari”
Nel catanese, il fenomeno ha assunto contorni ancora più violenti. Alcune baby gang attive nei quartieri di Librino e San Cristoforo sono state coinvolte in episodi gravi: incendi dolosi, danneggiamenti, pestaggi per “punizioni esemplari”.
Anche in questo caso, l’uso dei social è parte integrante del meccanismo. I video non servono solo a vantarsi. Servono a costruire terrore, status, influenza.
Una gang minorile individuata nel 2024 era composta da 9 ragazzi tra i 13 e i 16 anni. Due di loro erano figli di affiliati al clan “Cappello”. Nelle intercettazioni, si parlava di “diventare importanti” attraverso “il nome, i video, il rispetto”. Un rispetto che non viene più trasmesso attraverso la paura silenziosa, ma attraverso l’esibizione visiva del potere.
Nebrodi: gruppi di adolescenti come “cani da guardia” di attività illegali
Non sono solo le grandi città a essere coinvolte. La Relazione documenta anche episodi nell’area dei Nebrodi, nella Sicilia Settentrionale, dove piccoli gruppi di adolescenti operano come “cani da guardia” di attività illegali gestite da adulti, soprattutto nel controllo informale di aree rurali, nell’intimidazione ai danni di imprese agricole o turistiche e nella sorveglianza del bestiame rubato.
In queste realtà, spesso marginali dal punto di vista sociale e scolastico, la criminalità minorile assume la forma di manovalanza pre-mafiosa, senza una struttura ma con una logica interna ben riconoscibile: obbedienza, omertà, protezione reciproca, disprezzo verso le istituzioni.
È qui che l’assenza di scuola, servizi, cultura e futuro si salda con l’eredità di un potere invisibile ma presente.
La mafia cambia, e le nuove leve la rifanno a immagine loro
Quello che sta avvenendo in Sicilia, oggi, non è solo un allarme sociale. È una mutazione profonda della dinamica mafiosa. Cosa Nostra non è più la piramide granitica dei corleonesi. Non ci sono Totò Riina o Provenzano a guidare le masse. Non c’è un solo vertice. C’è disgregazione, frammentazione, riorganizzazione su scala molecolare.
“E nel vuoto di leadership – come nota la Dia – “emergono figure minori, giovani, spesso inesperte ma spregiudicate, che si affermano per potenza mediatica più che per anzianità o saggezza criminale”.
La mafia, oggi, è meno mafia e più brand criminale. È stile di vita, simbolo, spettacolo. Un’estetica pericolosamente appetibile, soprattutto in una terra in cui le alternative appaiono deboli o inaccessibili.
Pensare di fermare questa deriva solo con il carcere è illusorio. Serve repressione, certo. Ma serve soprattutto presenza dello Stato dove oggi non c’è. Le baby gang, le nuove leve, i ragazzi dei quartieri popolari non scelgono la criminalità perché è affascinante. La scelgono perché spesso è l’unica opzione visibile ai loro occhi.
La Dia parla chiaramente di “un impoverimento educativo, culturale e istituzionale” nei territori a rischio. Palermo, Catania, i Nebrodi non sono zone di guerra. Ma sono terre di assenza. Di abbandono. E dove l’istituzione non arriva, arriva il clan, il branco, la gang.
Questi ragazzi non sono tutti “mostri”. Sono figli di un sistema che si disgrega senza alternative valide. E vanno recuperati, non solo arrestati. Vanno coinvolti in progetti reali, duraturi. Vanno ascoltati, formati, portati fuori dalla gabbia della cultura dell’apparenza.
Perché oggi, per molti di loro, un video virale vale più di un diploma. Una pistola finta vale più di una borsa di studio. La sfida è cambiare questi simboli. Ribaltarli. C’è un’urgenza educativa, culturale, economica. Un’urgenza che riguarda tutti: famiglie, scuola, informazione, istituzioni.
Il rischio, se si perde questa battaglia o non si entra nel profondo delle questioni sociali prima che giudiziarie, è che la nuova mafia sia ancora più pericolosa della vecchia. Perché sarà una mafia fluida, giovane, digitale, spettacolare. E invisibile nelle sue radici sociali.
È il momento di chiamare le cose con il loro nome. Di raccontare i fenomeni, denunciarli, ma anche comprenderli. La mafia che nasce nei baby clan non è il futuro. È il presente.
E se non si agisce subito, sarà anche l’unica eredità possibile e nei prossimi anni diventare organizzata, estremamente violenta e imprevedibile.