La 31^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con quattordicesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
CAPITOLO 14°
A papà piaceva prendere il sole, adorava il suo calore, la sua luce. Poi ci fermavamo a mangiare qualche crescentina ed era appagato, ci ringraziava per avergli fatto vivere dei bei momenti.
Talvolta per non sacrificarmi, diceva: «Roberta, fai un giro, io sto bene qui». Seguendo i suoi occhi, un giorno, notai una stranezza: ogni volta che mi diceva questa frase c’era sempre su un ramo, accanto alla panchina, un uccellino, ed era la compagnia a cui mio padre si riferiva.
Papà amava la natura e tutto ciò che la rendeva viva. Mi inteneriva questo suo sapersi sempre accontentare, la sua gratitudine per ogni cosa gli si donava, saper essere felice anche con poco.
Mio caro papà, non sai quante volte ti ho rivissuto lungo i miei anni, e quante volte ti ho ringraziato quando i sorrisi prendevano il posto delle lacrime!
La mamma mi ha messo al mondo, tu mi hai insegnato a starci.
Dopo la sua morte, forse per la prima volta, guardai mia madre e capii quanto era stata forte.
Avevo condiviso poco con lei perché avevo costruito tanto con papà.
Lei aveva vissuto la malattia di mio padre facendosene carico totalmente, perché non gravasse su noi figli.
Non oso pensare quanto vuoto avesse lasciato in lei la perdita di papà.
Si, c’eravamo noi, ma non era la stessa cosa.
Lui era le sue radici, il suo bimbo da curare e tuttavia, in quegli anni, non trascurò nessuno tranne se stessa.
Roberto, senza saperlo, ci aiutò tanto con la sua presenza.
Era spesso a casa nostra, trascorreva con noi le serate, tentava di colmare un vuoto troppo grande.
A mia madre Roberto andava a genio e una volta le chiesi: «Mamma, se io mi sposassi con Roberto, a tuo parere farei bene, che ne pensi?»
Lei, lucida come sempre, mi rispose: «Roberto è una brava persona, affidabile, premuroso, onesto. Solo un particolare mi lascia perplessa: è una persone triste».
Dovevo aspettarmi questa risposta, io sempre col sorriso sulle labbra, gli occhi sempre sorpresi e voraci di immagini, come potevo pensare di vivere per sempre con un uomo serioso, pratico, timido e geloso delle proprie emozioni?
Mia madre aveva ragione, ma oggi mi piacerebbe poterle dire che quella tristezza è un fiore dentro di lui, ha colori, profumo e delicatezza. Per scoprire tutto questo però bisogna farlo sentire amato.
Io lo avrei scoperto nel tempo quando, come un buon soldatino, mi fece entrare nella sua vita e non mi ha mai più lasciato.
Ognuno di noi ama come sa amare e non sempre le persone che amiamo si sentono amate.
L’amore, per me, non doveva implicare nessuno sforzo. Io lo volevo, visibile, palpabile e manifesto.
Tutti e tre questi aggettivi non si addicevano a Roberto.
Scoprirsi lo metteva in difficoltà e forse fu proprio per questo che decisi di parlargli con delle lettere. Avrebbe scelto lui il momento di leggerle, nessuno lo avrebbe guardato o avrebbe spiato le sue reazioni, poteva commuoversi senza violentarsi per nascondere le sue emozioni.
Gliele scrivevo in concomitanza di qualche occasione speciale o ricorrenza, come il 25 dicembre, giorno del suo compleanno.
Non erano lettere lunghe e neppure lettere d’amore perché, come ho detto, sono per l’amore urlato, non scritto, ma pensai che le parole scritte si sposavano bene con i suoi silenzi.
La prima gliela scrissi per accompagnare un cane di peluche. Qualcuno riterrà inadeguato un peluche per un uomo. Non è così, è ciò che rappresenta che si deve considerare, non le sue apparenze.
Carinamente dopo averlo scartato, Roberto mi disse che sembrava fosse vivo, si sentiva osservato dal cane e gli vedeva muovere anche la coda.
Ne fui contenta, era un piccolo miracolo, aveva interiorizzato il valore di quel regalo, gli aveva dato un’anima.
Un altro Natale, mentre solcavamo l’Oceano, in una serata di gala con sottofondo la musica da lui amata tanto, ci misurammo con noi stessi.
Il suo sguardo aveva bisogno di parole ed io gliene diedi l’occasione.
«Roberto, gli dissi, in questa crociera, guardando l’oceano, ora calmo, ora mosso o agitato, l’ho paragonato al nostro amore.»
«In che senso?» mi chiese lui.
«L’oceano, ripresi io, è un mistero della natura come l’amore, è profondo e nasconde dentro di se la vita, nei suoi abissi giacciono resti di storia, pezzi di vita tanto simili alle macerie dei sentimenti. La furia del mare è distruttiva e mette in pericolo chi lo attraversa, proprio come certi amori, urlati e poi finiti.»
Mi chiese: «Ti riferisci al nostro amore?»
«Si, ma non mi hai lasciato finire» dissi io, mentre lui, con fare protettivo mi ricopriva una spalla con il lembo di una bellissima sciarpa.
Questo gesto mi intenerì e continuai: «E’ meraviglioso ciò che si può pensare scivolando sulle sue acque calme, in una notte serena. Non avverti più nessun’altra presenza, non hai più fiato tanto è bello ciò che senti, si fa l’amore con lo sguardo e ti accorgi quanto quei momenti di emozione sono la vera ragione del nostro stare insieme.»
«Bastano, mi chiese, quei momenti a giustificare il nostro stare insieme?»
«Si, ribattei, perché sono momenti ancorati alla vita, hanno un profumo e un senso che nessun’altra parola o gesto potrebbe spiegare.»
«Anche da vecchi sarà così?» mi chiese.
«Noi umani, continuai, diamo un peso eccessivo all’età, allo scorrere del tempo, abbiamo bisogno di quantificare tutto. Invece è l’intensità con cui si vive che ti fa stare bene, ti rende vivo, e tutto questo aggiunge vita alla vita, gioia alla gioia. E’ la calma dopo la tempesta, la gratitudine per un gesto insperato, sentirti guardata con desiderio e, soprattutto, capita nei momenti del dubbio, dell’indecisione, quando ti senti sola anche se sei con chi condividi la vita.»
«Tante volte, mi disse, standoti vicino, ti ho sentito lontana da me, com’è possibile?»
«Certo, è capitato, risposi io. Ci si ama ma non siamo uguali. Noi cresciamo, cambiamo e muta anche ciò che sentiamo. L’amore è come un figlio, gli dai la vita, lo accudisci, lo aiuti a crescere. Talvolta ti turba, ti delude, non è più quello che conoscevamo, e non accorgersi di tutto questo si può pagare con la solitudine.»
«Io ho ritenuto fosse più importante il sentire rispetto alla parola.»
«In certi momenti si, ripresi, perché non parla la tua voce ma i tuoi occhi, i tuoi gesti, non basta amare, occorre far sentire amata la persona che amiamo. Grazie Roberto, per questa bella favola che, nel bene e nel male, mi stai facendo vivere».
Capivo di averlo turbato con questi discorsi e mi sentii materna al di là di ogni altro sentimento esistente tra noi.
In copertina: Andrej Dúbravský (1987), «Gli studenti stanno aspettando», cm. 180×220, acrilico e spray su tela