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Romanzi da leggere online: 20° capitolo del romanzo “La voglio gassata”

giovedì 26 Settembre 2019

La 37^ puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il diciannovesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, La voglio gassata.

CAPITOLO 20°

Il suo era buonsenso a buon mercato, io avevo bisogno di rassicurazioni, di certezze che nessuno poteva darmi. San Valentino è una ricorrenza a cui diciamo di non tenere ma che festeggiamo sempre.

Le ricorrenze, le date sono create dallo star sistem pubblicitario, bisogna festeggiare tutte le volte che ci si sente dentro la voglia di farlo.

Ero molto brava a scappare da ciò che non mi piaceva e in amore ero totalizzante: o tutto o niente.

Mi buttai nel frivolo per non pensare, non potevo far dipendere tutta me stessa da un esame diagnostico.

Arrivò il San Valentino più difficile della mia vita.

In quel momento avevo bisogno di aiuto, non d’amore.

Invece. Proprio quel giorno, scoprii che essere amati è un grande aiuto.

Mi sentivo soffocare prima ancora di entrare nella stanza.

Così non mi dispiacque che il medico lasciasse entrare anche Roberto.

Non so se anche per lui fu una sorpresa sapere che mi poteva stare accanto.

So che in quelle ore lo scoprii paterno, consolatorio, per certi versi anche comico. Penso che abbia parlato più in quella sola ora che in tutta la sua vita.

Non dovevo muovermi, ma non avrei potuto farlo neanche se avessi voluto.

Cominciò col dirmi: «Robbi, pensi che qualcuno ci crederebbe se dicessimo che stiamo festeggiando San Valentino, tu infilata dentro un cilindro ed io seduto su una sedia a farti compagnia?»

Quando vide che la risposta non arrivava, si mise a canticchiare la struggente e famosissima colonna sonora di “Luci del varietà.” di Charlie Chaplin

Roberto sapeva che se c’era qualcosa che poteva aiutarmi era il ricordo di mio padre.

Peccato che fosse stonato al punto che fu un sollievo sentirmi dire: «Sei inappuntabile, vanitosa e non ti lasci coinvolgere. Vorrei tu vedessi la faccia del tecnico di laboratorio seduto dietro il vetro che lo separa da noi. Sicuramente starà pensando: poverina, spero che stia bene, di disgrazie ne ha già una: sopportare un marito come questo, che crede anche di essere spiritoso:»

Il tempo passava, ma per me sempre troppo lentamente.

Per fortuna la tensione si era stemperata e mi sentivo più rilassata.

Finalmente riuscii a fare un respiro lungo e rilassato, il mio fisico provato dall’ansia finalmente si rincuorava per essere riuscito ad affrontare quell’esame per me terroristico.

Roberto cercava di riempire ogni attimo con le parole, mi raccontò qualcosa di se.

Aveva dato fondo a tutto ciò che poteva dire e questo mi strappò un sorriso che lui non vide mai.

Mi aveva aiutato tanto e non solo lui.

Finalmente venne il tecnico che mi disse di scendere perché l’esame era finito.

Fui restituita alla luce che, per me, è la vita.

Cercavo di reagire alla sensazione strana di torpore che mi sentivo addosso, quando avvertii un fruscio e vidi qualcosa passarmi davanti al viso.

Era una farfalla di un bellissimo colore azzurro.

Il tecnico pensando mi desse fastidio, cercò di catturarla.

Mi scagliai contro di lui, dicendogli: «No, non la prenda, è il mio regalo di San Valentino.»

Lui non sapeva che mio padre mi aveva appena salutato in volo.

Tornammo a casa, ero stanchissima, non avevo voglia di reagire, volevo attraversare tutto il disagio e la paura di quelle ore e poi riprendermi la vita, tornare la Roberta di sempre.

Molti, e per molto tempo anch’io, quando siamo colpiti da un dolore, facciamo resistenza, ci opponiamo per non sentirlo. Invece non è questo il modo di affrontarlo.

Ci si deve lasciare andare, il dolore deve fare la sua strada che per ognuno di noi è diversa.

Dobbiamo quindi farci attraversare dal dolore per poi tornare a riprenderci la vita e continuare il nostro percorso.

Il mio angelo/dottore, che era in vacanza in montagna, telefonò.

Anche questa attenzione mi confermò quello che pensavo di lui, quanto tenesse alla mia salute e come mi conoscesse bene!

Non sapevamo niente. Roberto, in attesa del referto, cercava di coinvolgermi in ogni cosa per evitarmi di pensare.

Non riuscivo a non chiedermi: «E se ho una diagnosi di tumore per la seconda volta? Come farò a continuare a vivere, riuscirò ad affrontare il problema come la prima volta?»

Avevo già sperimentato che il nostro corpo è molto più forte di quel che sembra, ha risorse celate che emergono al momento giusto. La necessità ci aiuta a difenderci anche da noi stessi e ci fa vincere battaglie complesse e devastanti se non si risolvono. Roberto doveva recarsi a Parma per lavoro e fu abilissimo a convincermi ad andare con lui.

Mi disse che non aveva voglia di andare da solo e che avremmo mangiato il pesce in un bel posticino.

Il mio silenzio/assenso gli fece fare un sospiro di sollievo, ma penso che la paura che avevo io era anche la sua.

Roberto mantenne la promessa: andammo a pranzo in un bel posticino e mangiammo del buon pesce.

Arrivò il momento del dolce, ma non lo assaggiai nemmeno, perché squillò il telefono. In quei giorni lo squillo del telefono era temuto perché aspettavamo il referto che avrebbe deciso della mia sorte.

Era Antonio, ma capii immediatamente che a parlarmi era un uomo dispiaciuto, e passai il telefono a Roberto.

Nessuno parlò perché tutti avevamo capito, avevo un tumore al seno.

Lo chef che fino a un momento prima ci aveva sentito ridere, capi che qualcosa non andava, si avvicinò e con fare gentile mi chiese: «Qualcosa non va signora, glielo cambio con qualcos’altro?»

«No grazie, risposi, ho già finito di pranzare, mi è stato appena servito l’amaro e non posso considerarlo un digestivo.»

Mi guardai attorno prima di uscire, e niente mi sembrò più assurdo quanto trovarmi in mezzo a tanta gente che mangiava di gusto, che inneggiava alla vita con il suo buonumore, mentre io camminavo, morta dentro, sulle rovine della mia.

«Adesso ci sarà il corollario degli esami, mi dissi, per accertare se ci sono metastasi.»

Un altro verdetto da attendere con ansia. Io e mio marito avevamo perduto la tranquillità.

Antonio, il mio angelo/medico, mi seguì in questo percorso, consapevole da medico della gravità della situazione e, da amico, della tempesta che si era abbattuta sulla nostra vita.

Il primo esame fu una TAC e Roberto stavolta non poté essermi accanto.

Prima di me c’era un ragazzo, il cui aspetto non permetteva dubbi su come stava, avrei voluto chiederglielo, ma non volevo turbarlo prima di un esame fastidioso.

Una parte di me si voleva arrendere per stanchezza, l’altra diceva di resistere, di ritornare alla modalità di comportamento che ebbi quando affrontai la leucemia.

Ma ero frastornata, mi dicevo: «perché di nuovo a me, non era stato sufficiente il primo tornado?»

Adesso pensavo ho meno risorse per affrontare il male, sono più stanca, più provata.

Bisognava essere positivi, attendere i referti con ottimismo, avere voglia di vivere, ma in me sembrava che tutto questo fosse spento.

Compresi che c’è una positività nella sofferenza, ci fa diventare più analitici, sorvolare sulle apparenze e apprezzare il buono che c’è dentro di noi, crederci, amarsi un po’, quel tanto che i fa galleggiare nel mare della vita.

Il responso della TAC fu negativo e a dircelo fu Antonio. Respirai con consapevolezza, ma fu un attimo.

Si, dico bene, perché respirare come il battito cardiaco, sono atti involontari, che facciamo automaticamente.

Quando tutto questo può fermarsi, ti accorgi di quanto ci sia di miracoloso in un minuto che vivi.

Troppe attese, troppe domande, alcune addirittura con delle risposte ipotizzabili.

Ero ferita in ogni piccola parte di me, ero tradita da una vita che avevo sempre amato tanto.

Per sopportare e far passare più velocemente il tempo, durante le indagini cliniche, rivivevo fatti lontani nel tempo, quando la vita era una corsa senza ostacoli, conquistavi tutti con un sorriso e non eri disposta a condividere con nessuno ciò che era tuo.

Talvolta qualche infermiera, intuendo il mio stato d’animo, mi prendeva per mano. Era raro perché la loro quotidiana convivenza col dolore e la morte le forgiava e riuscivano ad estraniarsi per poterci essere d’aiuto.

Feci la scintigrafia ossea, un esame quasi coreografico.

Vedi una lastra scendere dall’alto verso di te, quasi con un fare minaccioso, come se dovesse oltrepassare il tuo corpo e farla finita.

Dopo fu il turno dell’ago aspirato, per avere conferme.

La mia femminilità era mortificata, colpita in una parte che ne era il simbolo, che legava un figlio ad una madre, che aggraziava l’aspetto di una donna rendendola desiderabile.

Ogni volta scacciavo, senza riuscirci sempre, la possibilità che mi privassero di un seno, di non ritrovarmi più in un corpo che avevo sempre visto perfetto. «Niente ti viene regalato, tutto prima o poi si paga.»

La situazione, che prima avrei definito comica in questa fase, invece, era paradossale. Diventava difficile, quando incontravo qualcuno che mi conosceva o con il quale ero in confidenza, rispondere al “come stai” di cortesia.

Rispondevo, sapendo di mentire: Bene.

Per non aggiungere bugia a bugia, talvolta rispondevo: «Come sempre.»

Rispondevo così perché il nostro “sempre”, costruito giorno per giorno lo conosciamo solo noi.

Talvolta, invece, non mi importava che gli altri dall’esterno potessero capire cosa stavo vivendo.

Pensavo: «mi scarteranno, mi compatiranno o mi diranno con clemenza che il Signore ti aiuti?»

Già il Signore, dov’era, cosa faceva mentre io perdevo, ogni giorno, un pezzo della mia vita?

Avrei avuto bisogno di aiuto, di un aiuto psicologico innanzitutto per accettarmi, per trasformare quella domanda: «Perché a me, in Perché non a me? Chi ero io per avere dalla vita un trattamento privilegiato, per essermi risparmiato il dolore, la disperazione, per allontanare da me la morte?»

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