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Un tema controverso sui social

Sex work, fisco e pregiudizi: il codice ATECO che divide tra diritto e morale

giovedì 17 Aprile 2025

Da alcuni giorni in Italia le escort possono, a tutti gli effetti, aprire una partita Iva. L’Agenzia delle Entrate ha introdotto un nuovo codice ATECO, il 96.99.92, che rientra nella categoria “Altri servizi alla persona nca” (non classificati altrove), comprendendo le attività di accompagnamento e prestazioni affini.

Non è una legge né una riforma strutturale, ma una misura tecnica di natura fiscale. Eppure ha avuto l’effetto di un potente sasso nello stagno.

smartphoneSui social, tra commenti ironici e indignazione, si è acceso un dibattito che in Italia sembrava sopito da decenni: è giusto che chi lavora nel campo sessuale paghi le tasse? È una forma di progresso o un cedimento morale? E soprattutto: questa misura serve davvero a far emergere un settore sommerso o rischia di diventare un alibi per lo sfruttamento?

Per provare a rispondere alla questione, occorre partire da un dato di fatto: in Italia il lavoro sessuale non è vietato, ma non è nemmeno regolato. La prostituzione in forma autonoma non è reato, ma organizzare, gestire o anche solo favorire l’attività di altri lo è.

Un paradosso che genera una zona grigia in cui convivono esperienze di libertà e di oppressione, professioni consapevoli e reti criminali.

Istat

Nel 2022, secondo una stima dell’ISTAT, il mercato del lavoro sessuale in Italia valeva circa 4,7 miliardi di euro, con un aumento del 4% rispetto all’anno precedente.

Questi dati, ripresi anche in un’inchiesta di RaiNews del 10 aprile 2025, evidenziano la vastità di un fenomeno che coinvolge migliaia di persone, perlopiù in maniera irregolare o invisibile.

In questo scenario, l’introduzione del codice ATECO può rappresentare un primo passo verso l’emersione, ma non senza ambiguità.

 

Chi è il sex worker? Un’identità oltre il pregiudizio

Il termine sex worker, o “lavoratore/lavoratrice del sesso”, è una definizione ampia e inclusiva che identifica chi offre prestazioni di natura sessuale in cambio di un compenso, all’interno di un rapporto consensuale e autonomo.

Nato in ambito anglosassone e diffuso a livello internazionale, il termine è stato adottato in contrapposizione a parole connotate negativamente come “prostituta” o “escort”, e mira a sottolineare la dimensione lavorativa e autodeterminata di queste attività. Non si tratta solo di un cambio linguistico, ma di un riconoscimento sociale, culturale e giuridico delle persone che operano in questo settore, spesso escluse dalle tutele fondamentali riconosciute ad altri lavoratori.

Il sex work comprende diverse figure professionali: escort, performer online, operatori di hot line, cam model, dominatrici, massaggiatori erotici. È un settore eterogeneo, dove convivono esperienze molto diverse: chi sceglie liberamente questa attività come fonte di reddito stabile, chi vi accede temporaneamente per necessità economiche, chi lo vive come forma di espressione o autodeterminazione. Ma anche chi lo subisce, quando lo sfruttamento e la tratta prendono il sopravvento.

Nel contesto del codice ATECO temporaneo assegnato alle escort, la figura del sex worker torna quindi al centro del dibattito pubblico, tra chi invoca legalizzazione, riconoscimento e diritti, e chi teme derive etiche o strumentalizzazioni.

In questo scenario, l’utilizzo del termine sex worker segna un punto di partenza: spostare la narrazione dalla morale alla realtà sociale, dalle etichette al riconoscimento della persona. In gioco non c’è solo una definizione, ma la possibilità di aprire una discussione matura su diritti, tutele e dignità nel lavoro sessuale.

 

L’identità di un codice: cosa cambia davvero

Con il nuovo codice 96.99.92, chi esercita attività di “accompagnamento e simili” può oggi registrarsi all’Agenzia delle Entrate e iniziare a fatturare. Tecnicamente, si tratta di una riclassificazione di attività già presenti in forma residuale sotto la categoria “altri servizi alla persona”. Ma per la prima volta viene reso esplicito che anche chi lavora come escort può rientrare in questo campo, almeno se opera in modo autonomo, volontario e senza intermediari.

Ma cos’è esattamente il codice Ateco? In poche parole, si tratta di  una sequenza alfanumerica utilizzata dall’Istat per classificare le varie attività economiche, utile per la registrazione della partita Iva e a fini statistici.

La misura è stata confermata da diverse testate internazionali, tra cui Reuters in un approfondimento pubblicato l’11 aprile 2025, in cui si sottolinea come questa apertura permetta alle sex workers italiane di “uscire dall’ombra”, almeno fiscalmente. La stessa agenzia ricorda però che in assenza di una legge specifica, resta il rischio di sovrapposizioni e ambiguità giuridiche.

Un esempio pratico: una lavoratrice del sesso che decide di aprire una partita Iva sarà riconosciuta dal fisco come autonoma, ma non potrà stipulare contratti veri e propri né contare su una tutela giuridica esplicita in caso di controversie. Una contraddizione che rende il riconoscimento fiscale solo parziale.

 

La percezione pubblica: tra reazioni e pregiudizi

Se sul piano tecnico la questione è chiara, sul piano culturale e mediatico la situazione è ben più complessa. Le reazioni sono state immediate e spesso polarizzate. Sui social si è registrata una sequenza quasi automatica: ironie, meme, battute da bar, seguite da indignazione moralistica, e poi da un contro-dibattito più ragionato che ha coinvolto attiviste, giuristi e operatori sociali.

Molti commentatori hanno letto la misura come un gesto di civiltà: il riconoscimento di un’attività esistente e la possibilità di garantire, almeno parzialmente, alcuni diritti. Altri hanno espresso timori – spesso legittimi – su possibili abusi, come l’uso del codice da parte di organizzazioni criminali per mascherare lo sfruttamento o la tratta.

Ma a emergere con forza è stato anche il classico moralismo italiano: quel misto di clamore e paura che accompagna ogni tentativo di affrontare il tema della sessualità in modo trasparente. Si è parlato di “decadenza morale”, “deriva culturale”, “normalizzazione del vizio”. Raramente si è parlato di diritti, libertà o autodeterminazione.

E il 14 aprile, alla luce dei primi “dubbi”, è  stato l’Istat a fornire, in una nota, i dovuti chiarimenti per sgomberare ogni interpretazione fuorviante: “L’Istituto nazionale di statistica rende noto che, a seguito dell’entrata in vigore dall’1 gennaio della nuova classificazione delle attività economiche Ateco 2025, coordinata a livello nazionale da Istat, Agenzia delle Entrate e Camere di Commercio per gli ambiti di rispettiva competenza, è stato recepito dalla classificazione statistica europea delle attività economiche denominata Nace Rev. 2.1 il codice 96.99 Altre attività di servizi alla persona n.c.a”.

Che nella nota ha ulteriormente precisato: “La descrizione di questo codice definita a livello europeo riporta, tra le altre, anche le seguenti attività: “provision or arrangement of sexual services, organisation of prostitution events or operation of prostitution establishments”. Le stesse attività erano già incluse nella classificazione europea precedente nell’ambito del codice 96.09, in vigore a partire dal 2008 al 2024, sebbene non in modo così esplicito come nell’aggiornamento Nace Rev. 2.1 da cui l’Ateco 2025 deriva”.

“Si precisa che la classificazione statistica delle attività economiche definita a livello comunitario può includere oltre alle attività legali anche quelle non legali al fine di garantire l’esaustività della classificazione e la piena comparabilità dei dati tra Paesi dell’Ue, indipendentemente dal loro regime normativo. Si segnala tuttavia che l’implementazione della classificazione Ateco 2025 a livello nazionale riguarderà solo gli operatori economici residenti che svolgono attività legali, come nel caso del codice 96.99.92 in cui rientrano, ad esempio, le seguenti attività: le agenzie matrimoniali e quelle di speed dating. La stima delle attività illegali, richiesta nell’ambito dei Sistema dei conti nazionali e regionali dell’Unione europea (Sec), verrà effettuata dall’Istat esclusivamente nell’ambito dei Conti Nazionali utilizzando metodi di stima indiretti” ha concluso nella nota l’Istat.

 

Diritto alla tutela, diritto al lavoro

Al centro della questione resta una domanda: è giusto che chi esercita un’attività sessuale per scelta possa farlo in sicurezza, legalità e con accesso ai diritti?

Un piccolo esempio pratico delle dinamiche che iniziano a prodursi lo abbiamo già. Secondo quanto riportato da Cronaca Flegrea, che ha verificato i dati di registrazione sul territorio, sono almeno diciannove le escort che nei primi giorni successivi alla novità hanno registrato la propria attività a Pozzuoli e Quarto, in provincia di Napoli. Numeri piccoli, ma che indicano una direzione: alcune professioniste hanno deciso di metterci la faccia, di uscire dal sommerso e di contribuire fiscalmente.

Secondo le esperienze raccolte anche dalle associazioni per i diritti civili, la possibilità di fatturare e pagare i contributi rappresenta un passaggio decisivo per chi lavora autonomamente. Significa potersi tutelare in caso di malattia, maternità o infortuni. Significa anche, potenzialmente, poter dire “questo è il mio lavoro” senza nascondersi dietro pseudonimi o coperture.

Ma proprio questa emersione può esporre a nuovi rischi: senza una normativa organica, le lavoratrici e i lavoratori del sesso restano privi di garanzie, e anzi rischiano di dover affrontare l’ostilità sociale e la confusione giuridica.

Una questione che si può riassumere così: “Ma se lo Stato incassa le tasse da queste attività, non tiene anche il dovere di garantire tutele a chi le svolge?”. Un principio semplice, ma che in Italia sembra difficile da far valere.

 

Il confronto europeo: Italia “schizofrenica” in materia di lavoro sessuale

Nel resto d’Europa, il quadro è eterogeneo. In Germania e in Olanda il lavoro sessuale è regolato: le sex worker si registrano, pagano le tasse e possono operare legalmente, con tutele sanitarie e previdenziali. In Svezia, Norvegia e Francia vige invece il cosiddetto “modello nordico”, che punisce il cliente ma non chi offre la prestazione. Un approccio che, secondo numerosi report delle organizzazioni per i diritti umani, ha finito per aumentare la clandestinità.

Il Belgio, a dicembre 2024,  è stato il primo Paese al mondo ad aver assicurato per legge ai sex workers, donne e uomini, lo status di lavoratori o lavoratrici dipendenti a pieno titolo, con tutte le protezioni sociali previste da un normale contratto di lavoro. Grazie alla legge, approvata a maggio ed entrata in vigore domenica, tutti gli operatori del settore possono accedere all’assistenza sanitaria statale, prendere un congedo di maternità, aver diritto ai giorni di malattia retribuiti e ai contributi per la pensione. Inoltre c’è anche la tutela dal rischio del licenziamento senza preavviso.

L’Italia, nel frattempo, resta in bilico: non ha legalizzato il sex work, ma lo tollera se svolto in forma autonoma. Non ha norme di protezione, ma ora ha un codice fiscale.

Una schizofrenia normativa che rispecchia una società incapace di guardare al sesso in modo adulto, e che preferisce lasciare tutto nel “non detto”.

I benefici di questa misura, se accompagnata da informazione e supporto, sono concreti: favorire l’emersione, ridurre la dipendenza da intermediari, accedere a tutele fiscali e previdenziali. Dal punto di vista economico, può contribuire a far rientrare una parte del lavoro sessuale nell’economia formale, in un Paese dove – secondo i dati ISTAT – l’economia sommersa ha raggiunto oltre 200 miliardi di euro nel 2022, pari a circa il 10% del PIL.

Ma ci sono anche rischi, e non vanno sottovalutati. Senza controlli adeguati e una normativa chiara, la possibilità di aprire una partita Iva potrebbe essere sfruttata da organizzazioni criminali per legalizzare l’illecito. In assenza di informazione e tutela, le lavoratrici autonome potrebbero trovarsi esposte a truffe o errori fiscali. E soprattutto, senza un cambiamento culturale, il peso dello stigma potrebbe restare intatto.

 

E la politica in tutto questo? Riusciremo in un dibattito adulto?

La politica italiana ha reagito in silenzio, o con alcune posizioni “polarizzate” in senso positivo o negativo netto.

Alessandra Maiorino

“Se confermato, sarebbe grave che il fisco prevedesse nei nuovi codici Ateco l’organizzazione di servizi sessuali. Perché è vero che la prostituzione in Italia non è illegale, ma lo sono tutte le attività di favoreggiamento, sfruttamento e induzione. Esattamente ciò che va a regolarizzare, dal punto di vista fiscale, la nuova classificazione. Un orientamento palesemente in conflitto con le leggi esistenti e sul quale sto depositando un’interrogazione al ministro Urso. Come è possibile che si vada così palesemente in contrasto con le leggi esistenti? Chi lo ha deciso? Stiamo parlando di attività che creano una zona grigia, lasciando spazio a sfruttamento e tratta. Vogliamo delle spiegazioni”. aveva dichiarato in una nota il 10 aprile la senatrice, Alessandra Maiorino, vicecapogruppo M5S al Senato, commentando la notizia.

Matteo Gelmetti

Con un’immediata replica arrivata da parte di Fratelli d’Italia, attraverso il senatore Matteo Gelmetti, che aveva respinto le accuse definendole infondate: “La collega Maiorino ha preso un granchio. Il Mimit e il ministro Urso non c’entrano nulla. L’Istat ha semplicemente recepito una classificazione europea elaborata da Eurostat, con l’obiettivo di rendere le statistiche nazionali confrontabili a livello UE, indipendentemente dal quadro normativo dei singoli Paesi”. Gelmetti ha inoltre sottolineato come la misura non rappresenti una legittimazione delle attività sessuali a pagamento, ma un adeguamento tecnico per fini statistici e fiscali, riferito esclusivamente ad attività esercitate in forma legale.

Tuttavia, il nodo rimane. Nessun ministro ha espresso una posizione netta, né a favore né contro. 

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Parlamento Italiano

Il Parlamento, già in passato incapace di affrontare seriamente il tema, osserva da lontano. Ma questa novità ha riaperto una breccia, e oggi è difficile ignorarla.

Il riconoscimento fiscale di un’attività non è mai neutro: implica che lo Stato riconosce l’esistenza di quel lavoro, e se ne assume, almeno in parte, la responsabilità.

Per questo motivo, la questione non può essere lasciata ai soli tecnici dell’Agenzia delle Entrate. Serve un confronto pubblico, trasparente, in cui si possano affrontare le vere questioni: come distinguere chi sceglie da chi è costretto? Come tutelare senza incentivare? Come garantire diritti senza scadere nella retorica?

Il Codacons, con una nota ufficiale del 10 aprile sulla questione, ha ricordato come il settore del sesso a pagamento produca un giro d’affari sommerso stimato in 4,7 miliardi di euro annui in Italia.

“Si tratta di una questione particolarmente spinosa – spiega il presidente Codacons Carlo Rienzi – La prostituzione in se non costituisce reato, se svolta in modo autonomo e su base volontaria, e di conseguenza appare corretto sottoporre a tassazione i proventi di tale attività, come peraltro ribadito dalla Cassazione nel 2011. Il nuovo codice Ateco dell’Istat, tuttavia, essendo esteso anche a “organizzazione di servizi sessuali, “organizzazione di eventi” e “gestione di locali di prostituzione”, si pone in netto contrasto con la legge italiana che se da un lato non vieta la prostituzione, dall’altro prevede il reato di sfruttamento della prostituzione, inteso anche come partecipazione ai proventi dell’attività di prostituzione (Cassazione del 2018), punito con reclusione da quattro a otto anni e una multa da 5mila a 25mila euro”.

“Siamo di fronte ad un corto circuito fiscale, con l’Istat che regolarizza tutte le attività legate alla prostituzione, e le leggi in vigore che vietano le stesse attività” – ha concluso Rienzi.

La misura del codice ATECO è quindi un punto di partenza. Non è la soluzione, ma è una crepa nell’ipocrisia.

Sta alla politica, alla società civile e anche al mondo dell’informazione decidere se quella crepa diventerà una porta verso una maggiore giustizia, resterà solo un espediente fiscale o se produrrà una frettolosa “marcia indietro” da esser discussa in Parlamento (e non finisca alle “calende greche”).

Il tempo dirà se produrrà un dibattito “adulto” su un tema così controverso, divisivo e che si presta a molteplici interpretazioni e “luoghi comuni all’italiana”.

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