“Palermo offre ai giovani professionisti una vera fetta della dolce vita. Sede di una fiorente cultura della piazza, i professionisti possono sedersi, lavorare e guardare il mondo che passa in una delle tante magnifiche piazze della città, circondate da caffè, venditori ambulanti e boutique adatti ai laptop“. Con queste motivazioni, circa un anno fa, National Geographic incoronava il capoluogo siciliano come miglior città per lavorare in smart working. Una visione quasi da favola e colorata che dipinge una Palermo al dir poco perfetta. Ma tolti fronzoli e orpelli chi lavora in Sicilia può davvero dire di trovarsi nella condizione idilliaca descritta?
Come visto, per vari aspetti e punti vista, l’Isola potenzialmente ha una grandissima capacità attrattiva, con la possibilità di avere un’ampia e innovativa proposta occupazionale. La verità purtroppo è ben diversa. Gli ultimi dati Eurostat assegnano la maglia nera alla Sicilia, posizionandola al quinto posto tra le regioni europee per percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni disoccupati, e alla seconda posizione italiana per percentuale di popolazione disoccupata tra i 15 e i 74 anni.
Una soluzione per rilanciare l’economia isolana sarebbe l’arrivo di grandi imprese capaci di impiantare le proprie sedi in Sicilia. L’esempio Amazon nel quartiere Brancaccio di Palermo, con i suoi 40 posti di lavoro a tempo indeterminato, per operatori di magazzino, è un esempio come tali operazioni possano contribuire nel cambiare la tendenza.
Ma cos’è che impedisce e ostacola un futuro più florido e prosperoso? “Manca un piano di investimenti su infrastrutture e viabilità“. Ha sottolinearlo è stato Francesco Brugnone, segretario generale Nidil Cgil Palermo. “L’essere un’isola con problemi di collegamento, con il resto della penisola, è un primo scoglio. Molte aziende non investono sul nostro territorio perché arrivare è problematico. Termini Imerese ne è un esempio: non riesce ad essere riqualificata perché mancano investimenti e sgravi fiscali come quelli in altre parti d’Italia per invogliare grandi imprenditori ad investire“.
In queste condizioni, le possibilità di trasformare la Sicilia in un hub occupazionale sono ancora lontane. “La percentuale di disoccupazione si attesta al 35% e precipita fino al 40% se consideriamo solo quella giovanile. Per chi lavora, poi, la condizione non è migliore. Il 60% ha contratti precari, tra cui part time “non volontari” che non arrivano alla no tax area. Inoltre – ha dichiarato Brugnone – si sta verificando una sempre più ampia preoccupazione per il venir meno del reddito di cittadinanza, che per i soggetti considerati occupabili non darà più quel minimo contributo che permetteva loro di avere un minimo di entrate. Il centro per l’impiego di Palermo, per i dati che noi abbiamo, non ancora avviato i corsi per la loro riqualificazione e successivo inserimento nel mondo del lavoro, lasciando presagire il dramma sociale che si verificherà a breve“.
Un quadro generale indica dunque una percentuale bassa di occupati e, per giunta, sottopagati. “Palermo era la prima città d’Italia per call center con più di 10mila presenze sul territorio. Oggi il loro posto l’hanno preso i rider – ha detto Francesco Brugnone – La maggior parte sono lavoratori autonomi, quindi non senza tutale, retribuzione bassa e problematiche continue all’ordine del giorno“.
Nuova frontiera è quella del lavoro agile, o meglio conosciuto come smart working. Il fenomeno è scoppiato con la pandemia e coinvolge circa il 70% dei lavoratori nel settore dei call center e delle telecomunicazioni. Il lavoro da remoto ha permesso a chi si era allontanato dalla propria terra natia di rientrare. Ma non solo. In molti sono arrivati volontariamente, spostandosi dalle loro sedi in Sicilia, all’interno di un quadro come quello portato alla ribalta dal National Geographic.