Oggi penetriamo tra le pieghe di varie leggende siciliane, partendo dal presupposto che non raccontano fatti puramente inventati, ma una parte di verità trasformata per spiegare eventi, altrimenti, incomprensibili.
Per fare un esempio, gli antichi che non erano supportati dal rigore della scienza speculativa, immaginavano il giorno e la notte “opera” di un Dio che, lassù in Cielo, guidava il carro del Sole, oppure “frutto” delle liti furibonde di questi due fratelli che non volevano incontrarsi. Altri racconti nascevano, invece, da paure ancestrali legate al sibilo del vento, interpretato come messaggio dell’altrove, e a ululati, come grida disperate di uomini trasformati in lupi da terribili incantesimi.
Oggi, allontanando da noi la razionalità, ci lasceremo rapire dalle storie di Colapesce, della Fata Morgana e dal miraggio della ricchezza di “Lu bancu di Disisa”. Iniziamo la nostra passeggiata nel mito.
Colapesce
Nicola di Messina, detto Cola, era figlio di un pescatore e soprannominato Colapesce per la sua abilità nel nuotare e conoscere il mondo sommerso. La prima attestazione di questa storia risale al XII secolo e ad un poeta provenzale che narra una leggenda secondo cui un certo Nichola viveva come un pesce. La sua fama arrivò fino a Federico II di Svevia, che decise di metterlo alla prova con prove sempre più difficili. La prima cosa che il sovrano buttò fu una coppa, che Colapesce recuperò; poi la sua corona, in un punto ancora più lontano, che il giovane gli riconsegnò e, infine, un anello. Questa volta, però, Colapesce non riemerse e la leggenda, mitizzandolo, narra che, scendendo ancora più in profondità e accortosi che la Sicilia poggiava su tre colonne, di cui una corrosa, per evitare che sprofondasse decise di restare sott’acqua a sostenere quella traballante.
Fata Morgana
La leggenda tramanda che la fata Morgana, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell’Etna, rimase incantata dal clima e dalla bellezza delle terre etnee e dal mare stupendo, fino al punto di decidere di stabilirsi nel centro delle acque dello stretto di Messina, dove nel suo palazzo di cristallo ospitò tutte le fate e le buone maghe di tutto il Mediterraneo. In un agosto di tanto tempo fa, mente nel cielo e sul mare non spiravano venti e l’afa creava una nebbiolina rossa che offuscava l’orizzonte, un’orda di conquistatori giunse sulle rive della città di Reggio. A pochi chilometri, sull’altra sponda, sorgeva la Sicilia con una grande montagna fumante, l’Etna, che il re barbaro non poteva raggiungere per mancanza di imbarcazioni. Ecco che, all’improvviso, si materializzò una femmina molto bella, Fata Morgana, chiamata anche la “fata delle acque“, che offrì al conquistatore l’isola che, con un suo cenno, apparve a due passi da lui. Il re, guardando nell’acqua, vedendo nitidamente i monti, le spiagge, le strade di campagna, le navi del porto e pensando di toccarli con un dito, balzò giù da cavallo e si gettò in mare, certo di poter raggiungere la Sicilia con un paio di bracciate. L’incanto, però, si spezzò e il barbaro affogò perché la sua visione non era che un miraggio prodotto da quella conturbante apparizione che altro non era che la Fata Morgana.
Lu bancu di Disisa
Un’antica leggenda araba narra che in una grotta presso il Feudo di Disisa, nei pressi di Grisì, frazione del territorio di Monreale, siano custodite immense ricchezze che formano “Lu Bancu di Disisa”. Dentro di essa alcuni spiriti dalle sembianze umane giocano a bocce , a dadi o a carte, seduti su montagne di monete di purissimo oro o su gioielli tempestati di pietre prezioso. Il tesoro, pur non essendo custodito da nessuno, non è trasportabile all’esterno; infatti, si racconta che nessuno sia mai riuscito nell’impresa e, anzi che, chi avesse tentato di farlo, prendendo alcune monete d’oro, non fosse più riuscito a salire. Per vincere questo “Banco di Disisa” si dovrebbero trovare e uccidere tre di nome Santi Turrisi provenienti da tre angoli diversi del regno e una giumenta bianca, anch’essa da sacrificare e mangiare dentro la grotta.
Leggende truculente e sanguinarie che nascono, forse, per addebitare all’immaginifico il male che può albergare nell’uomo. L’augurio, quello di trovare il vostro scrigno prezioso ad un passo da voi.