Non è raro individuare grande entusiasmo nelle parole di chi ha avuto, almeno una volta nella vita, la fortuna di assistere alla mattanza. Ed effettivamente la pesca del tonno è una pratica unica, intrisa di molteplici significati.
Si tratta innanzitutto di un’attività economica che ha avuto un forte impatto nella storia della Sicilia, non è un caso che le coste dell’Isola siano ancora oggi scandite dalle antiche tonnare, soprattutto nei litorali occidentali e orientali, anche se ormai quasi tutte in disuso. Nella prima metà del Novecento erano ancora una trentina le tonnare attive, alcune potevano raggiungere notevoli dimensioni.
La più grande in assoluto è la tonnara di Favignana, nelle isole Egadi, con un arsenale di 300 ancore, 3500 galleggianti e 360.000 m2 di reti. La mattanza costituisce solamente la parte finale della pesca del tonno, la quale dura alcuni mesi. Infatti ad aprile i pescatori, chiamati tonnaroti, gettavano a mare delle reti ad una profondità di 30- 40 metri, reti che rimanevano sul fondo grazie a delle grandi ancore di piombo, segnalate in superficie da dei galleggianti.
Si trattava di una pesca molto difficile e pericolosa, per questo motivo erano necessari pescatori specializzati, insomma durante la mattanza non era raro che qualche tonnaroto perdesse la vita. I pericoli derivavano dal fatto che si aveva a che fare con pesci di enormi dimensioni, pesanti mediamente 200-300 kg e con una lunghezza di circa 3 metri ma alcuni esemplari potevano addirittura superare i 500 kg.
La rete posta sul fondo era articolata in diversi scompartimenti, chiamati “camere”, l’ultimo dei quali era denominato “camera della morte”. L’insieme di tutte le camere era definito “isola” o “tonnara” e data la sua particolare conformazione, quasi ad imbuto, permetteva l’ingresso dei tonni che una volta entrati non riuscivano più ad uscire.
La rete era quindi una trappola gigantesca che si estendeva per alcuni chilometri, predisposta per intercettare i branchi dei tonni rossi che migravano dai mari caldi e dall’Oceano Atlantico al Mediterraneo per depositare le uova in un mare più chiuso e calmo e perché attratti da alcuni pesci come sarde e acciughe.
Periodicamente i pescatori controllavano le camere per vedere se fossero sufficientemente piene per poter incominciare la mattanza. Il “rais”, cioè colui che aveva il compito di dirigere tutte le operazioni dei tonnaroti, all’alba doveva comprendere in base alla sua esperienza e conoscenza dei mari se vi fossero le condizioni atmosferiche adatte alla pesca, che durava diverse ore, per cui uscire con un mare agitato sarebbe stato molto pericoloso.
Nel giorno della mattanza i tonnaroti iniziavano ad intonare diversi canti, le “cialome” e rivolgevano preghiere ai santi, soprattutto a Sant’Antonio di Padova, patrono delle tonnare siciliane, tant’è che il 13 giugno, giorno dedicato al santo, avveniva l’ultima pesca. I pescatori si disponevano in quadrilatero con le “muciare”, barche nere lunghe anche 30 metri, attorno ai margini della “camera della morte”: era questo il luogo della mattanza.
Il “rais” scandiva mediante un fischietto i movimenti sapientemente sincronizzati dei tonnaroti (mentre questi continuavano a cantare) per indirizzare i tonni all’interno delle reti verso la “camera della morte”, quest’ultima era l’unica “camera” ad essere dotata di una rete chiusa sul fondo, denominata “coppo” o “leva”, che era quindi sollevabile.
Quando i tonni erano tutti all’interno della “camera della morte” i tonnaroti potevano iniziare a sollevare le reti costringendo così i tonni ad andare verso la superficie. Adesso incominciava lo spettacolo più crudo, infatti i tonni sentendosi mancare sempre di più acqua e spazio per nuotare cominciavano a dimenarsi gli uni sugli altri, ferendosi anche mortalmente, il mare si tingeva di rosso, tanta era la quantità di sangue che usciva dalle ferite degli animali e le acque si agitavano quasi come se ci fosse in corso un temporale.
I pescatori ne approfittavano per arpionare i grandi pesci e con la sola forza delle braccia due o tre uomini prendevano dalle pinne i tonni arpionati per caricarli a bordo. Tale movimento doveva essere coordinato e ci voleva molto coraggio, un errore poteva essere fatale, infatti un colpo di coda sulla schiena di un animale di simili dimensioni avrebbe causato quasi certamente la morte del tonnaroto.
Da quanto detto non è difficile comprendere che la mattanza sia qualcosa di più di una semplice battuta di pesca, è tradizione millenaria che non si dovrebbe perdere perché è cultura e identità di un popolo, è rito che sconfina nel sacro e nel religioso ma è anche allegoria dell’esistenza attraverso il trionfo della morte che spinge l’uomo, alla vana ma allo stesso tempo incessante e costante lotta con la natura. È lo spettacolo della vita nei tratti forse più macabri e crudeli ma anche affascinanti.