Il verdetto della Cassazione che ha messo la parola fine al “Caso Contrada“, annullando definitivamente la sentenza di condanna a dieci anni nei confronti dell’ex superpoliziotto, chiude una lunga pagina nera della giustizia italiana.
Lo aveva detto la Corte europea dei diritti dell’uomo già nel 2015, lo hanno ribadito adesso i giudici della Cassazione: nessuno può essere processato per un reato che al momento in cui si sono svolti i fatti contestati non esiste. E infatti, questo è quanto accaduto con Bruno Contrada. Le ipotesi di reato che gli venivano addebitate facevano riferimento a presunti episodi avvenuti fra il 1979 e il 1988. Secondo l’accusa, l’ex numero 2 del Sisde, già a capo della Mobile di Palermo e della Criminalpol, aveva tenuto legami con uomini d’onore, con mafiosi di ogni genere. Da qui, l’accusa a suo carico di concorso esterno in associazione mafiosa. Peccato, però, che in quegli anni il reato di concorso esterno semplicemente non esisteva. E dunque, nessuno poteva e può essere processato per un reato di cui non aveva, né poteva avere contezza alcuna.
Peraltro – ma questi sono fatti processuali – Contrada si era sempre difeso, dicendo che in quegli anni fosse normale per un poliziotto raccogliere confidenze di boss e picciotti, non essendoci ancora l’istituto dei collaboratori di giustizia.
Comunque sia, il reato non esisteva (ancora oggi non è previsto dal codice penale), ma per quegli episodi Bruno Contrada venne arrestato e condannato a dieci anni, dopo svariati processi terminati con sentenze di segno opposto.
Bene fa il collega Riccardo Lo Verso su “Il Foglio” in edicola oggi a scrivere che “L’imputato deve conoscere anticipatamente la norma per la quale è finito sotto processo. Deve sapere e non prevedere quali saranno le possibili conseguenze. Ne vale del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito. Lo scandalo del processo Contrada è figlio di una totale assenza di equilibrio. Un uomo è stato arrestato e condannato per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato […]”.
Bene fa Lo Verso a ricordare che in fondo il pm Nino Di Matteo ha ragione quando dice che i giudici della Cassazione con la sentenza di ieri non sono entrati nel merito delle accuse. Infatti, – ricorda Il Foglio – non potevano farlo, in quanto il fondamento giuridico di quelle stesse accuse semplicemente era assente. Inesistente. Per cui, che senso ha parlare dei fatti processuali, quando questi non erano reato? La Cassazione ha voluto, così, stabilire e ribadire un principio di ordine generale. Un principio che l’Italia condannando Contrada aveva clamorosamente disapplicato.
E bene fa il suo difensore, l’avvocato Stefano Giordano a dire che chiederà il reintegro di Bruno Contrada fra i ranghi della Polizia di Stato, restituendogli quei gradi ingiustamente strappatigli.
Aggiungiamo noi. Chi risarcirà tutti questi anni perduti? Chi restituirà – oltre all’onore mai perso, come ha voluto ribadire con forza lo stesso Contrada – un pezzo di vita rubato a un uomo che non aveva commesso alcun reato?
Domande, a cui lo Stato è chiamato oggi a rispondere.