Fino a qualche anno fa il Banco di Sicilia è stato uno dei più importanti istituti del sistema creditizio italiano, che ha svolto un ruolo centrale nell’economia e nei processi di sviluppo della Sicilia.
La sua storia lunga 150 anni si è strettamente intrecciata, spesso determinandole, con le vicende delle élites e della politica dell’isola.
Poi è cominciato il processo di ridimensionamento del proprio ruolo fino a quando il Banco non è stato assorbito nei gruppi di interesse nazionale: prima Capitalia poi Unicredit.
Tutto questo è ricostruito nel volume “Storia del Banco di Sicilia” a cura di Pier Francesco Asso, Donzelli editore.
La ricerca, che utilizza materiali di archivio in gran parte inediti, è stata promossa dalla Fondazione Sicilia e affidata al coordinamento scientifico della Fondazione Res.
Dalle origini (1867) e fino al 1926, il Banco di Sicilia è stato uno degli istituti di emissione monetaria; poi il servizio venne concentrato sulla Banca d’Italia e il Banco diventò un istituto di diritto pubblico.
Per tutto il Novecento si è ritrovato al centro di una trama di interessi sia economici sia politici e spesso è stato proiettato al centro della cronaca a causa di scandali, casi di malversazione, interferenze, crisi gestionali.
Il caso più clamoroso, dal quale scaturì uno dei processi più controversi della storia giudiziaria italiana, è quello dell’uccisione nel 1893 del direttore generale Emanuele Notarbartolo di cui venne accusato il deputato crispino Raffaele Palizzolo.
Confrontandosi con l’ostilità di una parte del consiglio di amministrazione, Notarbartolo si era impegnato in una profonda azione di riorganizzazione e di risanamento.
Intendeva “spurgare il portafogli”, “ridurre le esposizioni di taluni clienti“, riportare le politiche creditizie a un rigore operativo con un ambizioso obiettivo di etica bancaria: “Ottenere che il lavoro e gli affari e non la speculazione e il comodo potessero attingere al credito del Banco“.
Tra le due guerre il Banco ampliò la sua presenza in Italia e all’estero e la sua operatività nel credito a lungo termine ma solo nel secondo dopoguerra ha conosciuto una stagione di grande influenza sull’autonomia regionale siciliana, sull’avvio di importanti iniziative industriali.
Ma la spinta progettuale dell’autonomismo, a cui il Banco diede un poderoso impulso come polmone finanziario pubblico, ha poi lasciato spazio alle operazioni di potere.
E in questa fase si cominciarono a produrre effetti perversi soprattutto nella selezione del credito condizionato dalle pressioni politiche e clientelari.
Queste distorsioni, sottolinea Carlo Trigilia, non vennero “adeguatamente contrastate dalle autorità politiche nazionali e da quelle di vigilanza“.
La preoccupazione era quella di evitare contrasti con le forze politiche regionali (Dc e partiti di maggioranza) che usavano il Banco come leva di consenso politico.
Da queste premesse arrivò la privatizzazione mentre la forza di uno dei più importanti istituti di credito italiano era scemata a un livello critico controllato attraverso l’assorbimento nei gruppi bancari nazionali, prima Capitalia e infine Unicredit.