“La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei”. Si è concentrato sui “misteri” riguardanti l’agenda rossa e la borsa del giudice Paolo Borsellino il pm Stefano Luciani che ha ripreso nel pomeriggio la requisitoria del processo sul ‘depistaggio’ delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta e che vede imputati, dinanzi al tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo, i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
“La borsa di colore scuro di Paolo Borsellino giace per mesi sul divano di Arnaldo La Barbera. Fino alla data del 5 novembre del 1992 non è mai acquisita perché manca un verbale di sequestro”. Il riferimento di Luciani è ad Arnaldo La Barbera, il funzionario di polizia a capo del gruppo della Squadra Mobile “Falcone-Borsellino, istituito per fare luce sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. “Una evidenza importante però – continua Luciani – arriva dalla deposizione resa in questo processo, e nel Borsellino Quater, dalla dottoressa Lucia Borsellino. Dice in sintesi che alcuni mesi dopo la strage La Barbera si recò dalla signora Angese Piraino per consegnarle la borsa del marito. Fu Lucia Borsellino ad accorgersi che mancava l’agenda rossa e a chiedere spiegazioni al dottore Arnaldo La Barbera, il quale chiuse il discorso dicendo che non c’era nessuna agenda rossa da restituire”.
“A quel punto infastidita da questo atteggiamento – continua il pm – si allontanò dalla stanza sbattendo la porta e La Barbera disse alla signora Piraino che la ragazza aveva bisogno di supporto psicologico perché delirava. Arnaldo La Barbera che era colui che depistò le indagini con dichiarazioni di falsi collaboratori fu anche colui che negò dell’esistenza dell’agenda rossa di cui gli venne chiesto conto nell’immediatezza dei fatti”. Il pm si è poi soffermato sulle rivelazioni fatte alla moglie Agnese durante l’ultimo “frenetico periodo di vita”. “La signora Agnese – dice Luciani – ricordò che suo marito le disse testualmente che c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato e che c’era contiguità tra mafia e pezzi dello Stato interessati alla sua eliminazione. Borsellino, sempre secondo quanto ha raccontato la moglie, in quel periodo chiudeva sempre le serrande di casa temendo di essere visto da Castel Utveggio che in quel momento era il simbolo della presenza di apparati deviati dello Stato. E ancora la signora Agnese dichiarò che durante una passeggiata Paolo Borsellino le disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma gli stessi colleghi e altri che avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione”.