«Quel giorno mi venne incontro e lo bloccai» dice Vincenzo Sabatino, 60 anni, di Collesano, riferendosi ad Ali Agca. Oggi è un avvocato, ma in divisa da carabiniere quel 13 maggio 1981, quando in piazza S. Pietro, a Roma, si consumò l’attentato a papa Giovanni Paolo II.
Entrato nell’Arma a 17 anni, all’epoca dei fatti era appena diciannovenne e prestava servizio presso la Compagnia San Pietro. «Mi trovai lì per un caso fortuito perché rientrati con un collega, fuori dal nostro turno accompagnammo un maresciallo che non aveva l’auto a disposizione e doveva andare in piazza. Lo lasciammo nelle vicinanze del colonnato». Sabatino ricorda ogni istante di quelle ore. «Lo avremmo dovuto riprendere dopo circa un’ora. C’era tantissima gente, un vociare incredibile. A un certo punto sento un boato, applausi scroscianti e tre colpi che non ho minimamente collegato a una pistola, ma pensavo fossero coreografici per far alzare in volo le colombe. Mi inoltrai verso il centro della piazza e fu in quel momento che vidi un gruppetto di 3-5 persone inseguire un tizio che si divincolava, inciampava, scivolava cadendo a terra, ma in grado di rialzarsi e di riprendere la fuga». Quell’uomo corre proprio verso Sabatino e gli inseguitori gli gridano di bloccarlo. Era Ali Agca, colui che aveva sparato e ferito papa Giovanni Paolo II. Ma Sabatino non lo sapeva, non sapeva neppure dell’attentato: «Per me era uno scippatore come tanti ne fermavamo ogni giorno».
Con una mano lo trattenne e con l’altra cercò di prendere le catenelle, le antenate delle attuali manette non ancora in loro dotazione; nel trambusto era però riuscito a togliere via il contenuto dalla tasca di Agca: un rullino, un dado e due monete, una da 100 lire e una straniera.
«Agca mi ripeté per tre volte: “Non essere stato io!”. A quel punto, giunsero gli inseguitori, guardie pontificie, ma si fecero avanti anche dei poliziotti in borghese, forse uno in divisa, chiedendomi di consegnarglielo per l’arresto. Cosa che feci tirando un sospiro di sollievo, tanto più che non ero in servizio in quel momento». Nello stesso momento una guardia svizzera lo chiama perché c’era una donna straniera ferita e occorreva caricarla sul furgone delle poste mobili per i primi soccorsi, «ma non vidi sangue, pensando si fosse fatta male per altre cause» precisa Sabatino. Di lì a poco arrivò l’ambulanza.
Intanto comincia il caos: elicotteri in volo, sirene, voci confuse. «Mi dicono che hanno sparato al papa e allora vado alla macchina e da lì, a piedi, verso Castel Sant’Angelo, per dare manforte avendomi comunicato che l’attentatore era fuggito in quella direzione. Tra i colleghi prendono a rincorrersi anche altre voci: che fossero stati due gli attentatori, di cui uno già fermato». A quel punto «tiro dritto verso la caserma e non appena arrivato mi ordinano di andare su dal capitano: erano neri e volevano sapere chi fosse quel giovane carabiniere che si era lasciato scappare Agca!». Peraltro consegnandolo proprio ai poliziotti, in un periodo di forte “concorrenza” tra i due Corpi.
Per Sabatino sono momenti di forte tensione: «Avevo il terrore che quell’involontaria sequenza potesse mettere fine al mio sogno all’interno dell’Arma e che mi avrebbero rispedito per direttissima al paese; peraltro la ferma triennale stava per scadere…». Un brigadiere, intimo amico, esce in quel momento dalla stanza del capitano e Sabatino gli confida quanto accaduto, consegnandogli anche rullino, dado e monete trovati nella tasca di Agca. Anche su suo suggerimento, non dirà nulla, scivolando tutto nel nulla di lì a poco tempo dopo.
«Per un verso – continua Sabatino – avrei voluto dire tutto, per un altro mi sentivo troppo ingenuo. Alla fine ne parlai con qualche collega solo dopo un po’ di tempo, ma già ero stato trasferito al Csm non facendo più parte del reparto».
Storia sepolta fino allo scorso anno, quando vede sulla Rai l’intervista di un signore, Ermenegildo Santarossa, ex gendarme pontificio che racconta quei fatti nello stesso identico modo vissuto da Sabatino. Fatte le dovute ricerche, lo rintraccia al telefono e cerca di appurare la “bontà” di quanto dichiarato da Santarossa, uno degli inseguitori di Agca che fece segno a Sabatino di bloccarlo.
«Santarossa, nella sua relazione, citò subito un giovane carabiniere – sottolinea Sabatino – che era stato fondamentale nella cattura di Agca e al quale si sarebbe dovuto assegnare un riconoscimento», che chiaramente non ci fu. Ritrovatisi a Roma, hanno chiuso un cerchio: per tutti questi decenni i due si erano incrociati sullo sfondo della Storia senza sapere chi fosse realmente l’uno e l’altro.